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Connessi all'Opera, 28 Maggio 2023 |
Stefano Balbiani |
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Giordano: Andrea Chenier, Milano, ab 24. Mai 2023
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«Milano, Teatro alla Scala – Andrea Chénier (con Jonas Kaufmann) |
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L’attesa era, ovviamente, tanta e spasmodica: l’acclamato tenore Jonas
Kaufmann torna a cantare in un’opera sul palco del Teatro alla Scala dopo
ben nove anni (la sua ultima apparizione al Piermarini non in concerto
risale, difatti, a una recita di Fidelio nel dicembre 2014, quando sostituì
un collega indisposto). Per l’occasione, il divo tedesco si cimenta con uno
dei suoi cavalli di battaglia del repertorio italiano, già affrontato sulle
piazze più prestigiose, da Londra a Vienna, da Barcellona a Monaco di
Baviera, subentrando a Yusif Eyvazov per le due recite finali di Andrea
Chénier. Inutile precisare come queste ultime repliche del celeberrimo
dramma verista di Umberto Giordano, su libretto di Luigi Illica, fossero
entrambe esaurite; qui si riferisce della performance di sabato 27 maggio.
Kaufmann esibisce, sin dalle prime battute, le sue note peculiarità: una
vocalità virile e scura, di suadente tinta brunita, modulata con finezza,
generosa ed emessa in maniera assai particolare; acuti squillanti e
luminosi, raggiunti, quasi sempre, con estrema facilità; un registro
medio-grave sonoro, dalle ammalianti screziature bronzee; il fraseggio
accurato e dovizioso di accenti, colori, inflessioni, sfumature; una
presenza scenica aitante e signorile; una notevole, sapiente immedesimazione
nel personaggio, supportata da una recitazione magnetica e disinvolta.
Certo, rispetto ad anni fa (pensiamo anche solo alla celebre Carmen del 7
dicembre 2009) la voce ha perso, a tratti, di armonici (come è naturale che
sia, dopotutto, con lo scorrere del tempo e una carriera importante come
quella del tenore bavarese); nell’arco della serata si avvertono, altresì,
qualche suono velato e un po’ di affaticamento e stanchezza qua e là (per
esempio nel pianissimo in apertura di “Ora soave, sublime ora d’amore!”,
risuonato opaco, o in “Come un bel dì di maggio”). Tutte minuzie, di fronte
a una prova oggettivamente rimarchevole e di gran valore, che vede la sua
punta di diamante nell’Improvviso “Un dì all’azzurro spazio”, affrontato con
prestanza, fierezza e trasporto, accolto da scroscianti e festanti applausi
a scena aperta, e nell’aria “Sì, fui soldato”, resa con energia e nobiltà.
Accanto a lui, come Carlo Gérard troviamo uno dei baritoni più
interessanti dell’odierno panorama lirico, Amartuvshin Enkhbat, che dal 21
maggio ha preso il testimone da Luca Salsi e Ambrogio Maestri, esibitisi
nelle altre recite. Il giovane artista mongolo sfoggia uno strumento vocale
pastoso, morbido e vellutato, di ragguardevole tonnellaggio, che corre con
naturalezza nella vasta sala teatrale, in grado di sovrastare le possenti
sonorità orchestrali senza il minimo sforzo. Una voce calda e avvolgente,
timbrata in tutta la gamma, alla quale si uniscono una dizione nitida e
chiarissima, una tecnica ferrea e priva di sbavature, un lodevole controllo
dei fiati, il portamento nobile e austero. Con gusto, Enkhbat rifugge da
scontati e truci effettacci tagliati con l’accetta, servendosi di un
fraseggiare nel complesso rifinito, a tratti leggermente generico,
dipingendo un Gérard potentemente umano, controllato e sobrio. Da
fuoriclasse l’aria “Nemico della patria?!”, accolta da prolungate ovazioni
al calor bianco.
La fascinosa Sonya Yoncheva è Maddalena di Coigny,
parte che ha debuttato a inizio mese in questa produzione. Il soprano
bulgaro mostra una vocalità ampia e di buon peso, di seducente timbro
ambrato; gli acuti risultano corposi, svettanti e vibranti, i centri cremosi
e compatti, mentre i gravi risuonano a volte poco sonori. L’interprete è
convincente e appassionata, mai volgare o sopra le righe, delineando una
Maddalena fanciullesca e civettuola nel I quadro, per poi evolvere in donna
matura e sensuale, dalla cocente tempra drammatica. Grazie anche a una
espressività spigliata e a una dizione curata, l’attesa aria “La mamma
morta” è resa con ardore, pathos e dolente identificazione nelle sventure
del personaggio, suscitando gli entusiasmi degli spettatori; penetrante e al
cardiopalma la disperata invocazione “Andrea! Andrea! Rivederlo!” che
sigilla il III quadro.
Ben assemblato il resto del cast, con i
relativi distinguo. Su tutti spicca la Madelon intensa e accorata
dell’inossidabile Elena Zilio, classe 1941, dalla vocalità salda e ben
sostenuta. Tornita e vellutata la mulatta Bersi di Francesca Di Sauro.
Scenicamente icastica ma vocalmente disomogenea la Contessa di Coigny di
Josè Maria Lo Monaco. Salace e musicale l’Incredibile di Carlo Bosi; sonoro
il Roucher di Rubén Amoretti; convincente il sanculotto Mathieu di Giulio
Mastrototaro, dalla voce timbrata e dal fraseggio mordace; luminoso e per
nulla manierato l’Abate di Paolo Antonio Nevi. Tonante ed esteso il Fouquier
Tinville di Adolfo Corrado; squillante e ben proiettato il Maestro di Casa e
lo Schmidt del basso cinese Li Huanhong; puntuali Sung-Hwan Damien Park
(Pietro Fléville) ed Emidio Guidotti (Dumas).
Alla testa
dell’Orchestra scaligera, con gesto energico Marco Armiliato propende per
una direzione solida, vigorosa ed enfatica, di forte impatto teatrale e di
sicura presa sul pubblico, tesa e complessivamente efficace nell’agogica dei
tempi, improntata a volumi orchestrali turgidi e muscolari, a volte
eccessivamente ingombranti e soverchianti rispetto al palcoscenico. Potenti
e incisivi gli interventi del Coro, guidato con mano salda da Alberto
Malazzi.
Lo spettacolo è quello gradevole e classico, di sapore
cinematografico che, il 7 dicembre 2017, ha inaugurato la stagione del
Piermarini, con regia del cineasta Mario Martone ripresa, oggi, da Federica
Stefani; niente trasposizioni di epoca o ambiente, niente stravolgimenti o
chiavi di lettura cervellotiche. Le scene belle e pulite di Margherita Palli
mostrano una struttura rotante come un carillon che permette, così,
l’articolazione contemporanea dei differenti piani narrativi, mostrando con
agilità via via i contesti nei quali si dipana la vicenda: il lussuoso,
pretenzioso giardino d’inverno nel castello dei conti di Coigny, tutto oro,
specchi e cristalli; l’altare dedicato a Marat e il ponte Peronnet; il
Tribunale rivoluzionario; le carceri con il patibolo. A tale piacevole
linearità concorrono anche i preziosi costumi di foggia settecentesca di
Ursula Patzak, le luci atmosferiche di Pasquale Mari e, nel I quadro, la
coreografia armoniosa di Daniela Schiavone, che ha visto impegnati alcuni
solisti del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. Martone fa spesso ricorso
a efficaci fermoimmagine (come nella chiusura del III quadro o
nell’emozionante finale); in una interpretazione nel solco della tradizione,
ricordiamo almeno l’irrompere nel I quadro del popolo straccione e affamato,
visibile attraverso gli specchi della dimora nobiliare, rappresentazione di
rara potenza che richiama alla memoria i miserabili effigiati da Giacomo
Ceruti, detto il Pitocchetto, nei propri dipinti. Teatro esaurito, con
numerosi applausi a scena aperta. Al termine, esito trionfale, con roboanti
e incessanti ovazioni per i tre protagonisti e il direttore; acclamazioni
anche per l’intramontabile Zilio.
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