|
|
|
|
|
Connessi all'Opera, 15 Marzo 2022 |
Filippo Antichi |
|
|
Puccini: Turandot, Rom, Accademia di Santa Cecilia, 12. März 2022
|
Roma, Santa Cecilia – Turandot (Pappano, Radvanovsky, Kaufmann, Jaho)
|
|
|
“E poi Tristano”, queste sono le famose parole appuntate da Giacomo Puccini
sull’ultima pagina degli abbozzi per il finale di Turandot, ancora
attanagliato nello stallo compositivo che lo aveva portato a scrivere
l’opera solo fino alla morte di Liù. Cosa volesse dire con quella nota se lo
sono chiesto in tantissimi, con le più varie e possibili speculazioni. Fatto
sta che Turandot è innervata al suo interno anche di pezzi di Tristan, e
persino il tema più famoso, quello del nome, che regge la melodia del
“Nessun dorma” e compare la prima volta nel secondo atto, nasce come da uno
scampolo di accordo wagneriano. Non è un caso, dato che in quest’opera è il
nome che funge da filtro amoroso, e l’arrivo alla conoscenza di esso porta
Turandot a sgelarsi, tanto che quando lei dichiara di conoscerlo dice: “Il
suo nome è amor”. Se Puccini ha questa grande idea di tramutare i concetti
wagneriani nel canto del cigno dell’autunno dell’opera italiana, è Franco
Alfano quello che porta a pieno compimento tali dettami nel primo finale da
lui approntato, prima che una revisione e i tagli toscaniniani vi si
abbattano sopra. Nonostante la scarsa opinione che gode tra i melomani, il
primo finale di Alfano è anzitutto un pezzo musicale dall’orchestrazione
raffinatissima che si tende tra i colori lussureggianti alla Rimsky-Korsakov
e scarti agogici degni di Stravinskij; soprattutto rende lo sgelo della
principessa assai più plausibile, dandole il tempo di smarcarsi dal bagaglio
emotivo che si porta appresso. Turandot diventa così un personaggio
psicologicamente complesso degno di stare accanto alle eroine straussiane
del periodo, dall’Imperatrice della Frau ohne Schatten alla protagonista di
Die ägyptische Helena, innervate delle inquietudini nate durante e dopo la
Grande Guerra. Tuttavia, fino alla fine degli anni ‘70 questa prima
redazione del finale è rimasta sigillata nell’archivio Ricordi. Eseguita per
la prima volta nel 1982 a Londra, è stata incisa nel 1990 in un recital di
Josephine Barstow da John Mauceri, grandissimo alfiere del primo finale
Alfano nelle sue esecuzioni di Turandot dal vivo. Ad aggiungere un ulteriore
tassello, arriva oggi Antonio Pappano che nelle scorse settimane ha
registrato la sua Turandot per la Warner con i complessi romani di Santa
Cecilia e un cast di superstar, optando proprio per questa conclusione: per
la prima volta l’opera completa viene quindi incisa con il primo finale
Alfano.
Come già fatto sei anni fa con Aida, al termine delle
registrazioni giunge una recita in forma di concerto dell’opera nella sala
progettata da Renzo Piano. A questo punto c’è solo da sperare che l’effetto
in disco sia anche solo rapportabile alla qualità di questa performance.
Antonio Pappano vive questa musica come pochi altri ai suoi livelli. Il
ritmo impresso all’esecuzione è quello di un direttore che sa come far
funzionare il palcoscenico anche quando non c’è, mettendo a punto agogiche
talmente calibrate da mantenere sempre alta la tensione. A ciò si aggiunge
una cura dei particolari che mai va a scapito dell’insieme generale: i
colori sgargianti, il fraseggio orchestrale mai scontato, tutto viene
eseguito per dare l’idea di assistere a un pezzo totalmente vivo nella sua
anima drammatica. Pappano riesce anche a sottolineare le idee che Puccini in
qualche modo ricicla da altre sue composizioni aggiornandole alle novità, a
partire da quel “Non piangere Liù” che trova già un precedente, anche se
meno esplosivo, nel duetto del primo atto di Manon Lescaut, o certe
soluzioni quasi cinematografiche già sperimentate in Tosca, mentre alcuni
impasti timbrici sembrano usciti direttamente dalla Salome di Strauss. Tutto
ciò è possibile grazie a un’orchestra e a un coro che marciano perfettamente
in comunione d’intenti con il direttore. Basterebbe ciò, unito a una
splendida esecuzione del primo finale Alfano, a etichettare questa
esecuzione come ottima.
Tuttavia il cast di lusso aiuta a rendere la
serata memorabile. Sondra Radvanovsky debutta il ruolo del titolo con una
sicurezza invidiabile. Dotata di un timbro leggermente metallico, la voce,
già notevolmente ampia, si trova perfettamente a suo agio soprattutto nel
registro acuto, dove si fa veramente ragguardevole. La formazione
belcantista aiuta il soprano a cesellare i fraseggi e a cercare i legati,
mentre è l’interprete a fare il grande lavoro: la sua è una Turandot umana e
finalmente non umanoide, una donna che si è costruita una maschera dietro
cui sta un coacervo di dolore. Nonostante qualche leggero affaticamento nel
finale, Radvanovsky si distingue già come una interprete di questo ruolo
difficilmente eguagliabile al giorno d’oggi.
Notevole è anche la Liù
di Ermonela Jaho, la cui voce non avrà più la freschezza di qualche anno fa,
ma è comunque di volume consistente, dotata di un bel timbro, capace di
smorzare acuti con sapienza e disegnare un personaggio accorato e
compassionevole, tanto che l’applauso dopo “Signore ascolta” è l’unico a
scena aperta che davvero interrompe l’esecuzione.
Discorso più
complesso per Jonas Kaufmann al debutto come Calaf. Innanzitutto si tratta
di un ruolo costruito su una tessitura troppo acuta per il tenore tedesco,
che infatti è costretto a evidenti sforzi, anche solo per sovrastare certi
passaggi orchestrali. Tuttavia, appena la voce può tornare nella sua zona di
elezione, cioè il registro medio-basso, Kaufmann dispensa fraseggi e
mezzevoci costruiti ad arte, e basterebbe questo per portare a casa la
serata. Nel “Nessun dorma”, poi, dimostra un controllo del fiato
ragguardevole, cosa che, insieme alle finezze di cui è capace, rende questo
il suo momento migliore.
Michele Pertusi è un Timur degno di
completare un tale quartetto protagonista, dimostrandosi a perfetto agio nel
tratteggiare il personaggio del vecchio re esule. Ottimamente affiatate sono
le tre maschere, a partire dallo squillante Gregory Bonfatti come Pang fino
al Pong di Siyabonga Maqungo, dotato di timbro rotondo e suadente. Ma a
emergere è soprattutto il cinico e fermo Ping di Mattia Olivieri, dotato di
una vocalità ragguardevole e ben dosata. Leonardo Cortellazzi dà un gran bel
risalto al breve ruolo di Altoum per lo strumento pieno e i giusti accenti,
così come il puntuale Mandarino di Michael Mofidian, e l’ottimo Principe di
Persia di Francesco Toma.
L’esecuzione si conclude con una vera e
propria standing ovation tra fragorosi applausi per tutti ed entusiasmo alle
stelle soprattutto per le due donne protagoniste e per Pappano, siglando
così una serata davvero memorabile.
|
|
|
|
|
|
|