OperaTeatro, 28/10/2022
RAFFAELLO MALESCI
 
Puccini: La fanciulla del west, Bayerische Staatsoper, ab 16.10.2022

REALISMO CINEMATOGRAFICO PER LA FANCIULLA DEL WEST A MONACO
 
Grande prova d’insieme per un cast omogeneo e convincente con Malin Byström, Lucio Gallo e Jonas Kaufmann

Alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera viene riproposta “La Fanciulla del West” di Giacomo Puccini, nell’allestimento curato nel 2019 dal regista Andreas Dresen, con Le scene di Mathias Fischer-Diskau e i costumi Sabine Gruenig.

L’allestimento si conferma di grande qualità nel suo insieme e certifica la notevole capacità dell’opera bavarese di proporre titoli complessi, che necessitano per funzionare di un gran numero di parti solistiche e di una messa in scena accurata e realistica.

Tale è la regia di Andreas Dresen, che traspone la vicenda ai giorni nostri, in una non meglio precisata miniera che diviene archetipo e simbolo di tutte le situazioni di sfruttamento che ancora oggi ci sono nel mondo. La scena è di conseguenza scarna. Nel primo atto del filo spinato, pedane rialzate, una passatoia. I minatori escono dalla terra muniti di lampade e trovano nella povera mescita di Nick un qualche ristoro.

Quello che immediatamente colpisce è la meticolosa cura riservata alla recitazione e all’interpretazione di ogni singolo cantante, cura che non è evidentemente venuta meno con le riprese. Precisa, coinvolgente, equilibrata e cinematografica la resa scenica; con sempre un occhio alla chiarezza si susseguono scazzottate assolutamente convincenti, risse, partite a carte, la distribuzione della posta, la partenza di un compagno, l’arrivo dell’agente della Wells Fargo e così via. Questo ovviamente senza che la qualità vocale e musicale, sempre altissima, ne sia minimamente disturbata.

Grande perizia di messa in scena, accurato lavoro d’insieme di tutti gli interpreti per un risultato che lascia a bocca aperta per naturalezza e precisione di tutto l’ensemble coinvolto, a dimostrazione della sempre altissima qualità delle compagini dell’opera bavarese e della scelta vincente di disporre di un ensemble stabile.

Nel secondo atto la casa di Minnie è l’accenno di una capanna di lamiera in mezzo ad un palcoscenico desolato, quasi simbologia tangibile di un nido sicuro, un’isola in mezzo alla natura selvaggia. Il resto del palco è vuoto e sullo sfondo si vede la tempesta di neve. La vicenda si dipana in questa casa fin troppo piccola e tutto è recitato con verosimiglianza, realismo e anche ironia: ironia nella scena iniziale dei servitori indiani, dove Wowkle viene immaginata incinta anziché con un neonato al collo, il che rende il dialogo con il suo futuro marito fra il cinico e il surreale. Ironia poi nell’incontro d’amore fra Minnie e Dick Johnson, in cui il regista gioca anche la carta dell’imbarazzo e di un innamorato non così spavaldo come da tradizione, ma pieno di insicurezze e anche con qualche goffaggine. Magistrale in questo senso l’interpretazione scenica di Kaufmann.

La scena dell’irruzione dello sceriffo e della partita a poker è gestita con calibro, precisione e minuzia, senza che neanche il minimo particolare (dal sigaro, alle gocce di sangue) sia lasciato al caso. In questo si vede la provenienza cinematografica del regista Andreas Dresen.

Nel terzo atto la scena si scarnifica ulteriormente: null’altro che un grande palco vuoto a più livelli e un palo di acciaio per il telegrafo. Il tutto è riempito dal coro, anch’esso meravigliosamente gestito e naturalmente coinvolto nell’azione. Un grande quadro d’insieme che dura tutto l’atto, dalla caccia a Johnson, alla cattura, fino all’irruzione di Minnie e il conseguente lieto fine con la fuga degli amanti dalla California.

In realtà, mentre i due protagonisti stanno andandosene, il cielo lentamente si chiude con l’avvicinarsi inesorabile di due quinte che rappresentavano il deserto, o semplicemente uno iato sullo sfondo. Il regista non crede a questa redenzione e blocca fisicamente Minnie e Dick Johnson prima che possano effettivamente andarsene.

Una messa in scena scarna se vogliamo, ma formidabile nell’esecuzione e nella gestione delle masse e delle numerose scene d’insieme. Un lavoro magistrale, che ha il pregio non comune di dimostrare che la verosimiglianza teatrale è possibile anche al teatro d’opera.

Verosimiglianza a cui hanno dato grande parte un terzetto di protagonisti formidabile. A partire dall’atteso Dick Johnson di Jonas Kaufmann, che non delude le aspettative, regalandoci una lettura come sempre personalissima, tutta incentrata sulla credibilità del personaggio, sia vocalmente che scenicamente. Kaufmann ha l’indubbio merito di interpretare in modo non ortodosso, regalandoci sempre letture nuove e illuminanti; così il suo Johnson ha i tratti insicuri di un ragazzotto trovatosi in un gioco più grande di lui, che inoltre di fronte ad una donna come Minnie si imbarazza inesorabilmente, diventa quasi goffo, strizza l’occhio al comico. La voce va di conseguenza: giocata sul legato, sulle mezze voci, su accenti sfumati, inusuali sillabati e salite all’acuto perfette e repentine, così come l’attacco quasi in sordina e senza soluzione di continuità della sua celebre aria del terzo atto. Kaufmann si adatta perfettamente alla messa in scena cinematografica di Dresen ed è sempre nel personaggio, per sguardi, movenze e contatto emotivo con la situazione. Kaufmann va oltre il cantante d’opera, fa dimenticare al pubblico che sta cantando, non recita e non canta, è a un livello superiore, “gioca” la parte come direbbero i tedeschi e il risultato si vede ed è semplicemente trascinante, assoluto, convincente.

Al suo fianco l’ottima Minnie di Malin Byström, che non teme il confronto con il collega, scolpendo il personaggio in modo sicuro e convincente. La Byström è ricca di accenti e sfumature, con un canto sorvegliato, che però non ha timore a salire all’acuto aperto, quasi all’urlo, nelle scene più drammatiche. Anche lei attrice raffinata, crea una fanciulla avvenente e materna, che si trasforma in donna decisa e gagliarda quando si tratta di difendere il suo amore verso il bandito Johnson.

A completare il terzetto dei protagonisti un inarrivabile Lucio Gallo, che ha sostituito all’ultimo il previsto Claudio Sgura. La carriera del baritono italiano non ha bisogno di presentazioni e la performance dell’altra sera ha confermato una voce intatta, potente, timbrata; il fraseggio è magistrale, l’adesione al personaggio completa. Gli accenti ficcanti e sostenuti delineano un villain cieco e feroce, ma pronto a mantenere la parola nella sconfitta e a restare senza fiato nella scena finale in cui Minnie riesce a convincere i minatori a salvare Dick Johnson. Indimenticabile anche la sua performance.

In un’opera come “La Fanciulla del West” il terzetto di protagonisti può risaltare solo su un humus fertile e preparato di “cosiddetti” comprimari. Ebbene nella messa in scena di Dresen, sono proprio questi personaggi secondari a fondare l’ossatura della drammaturgia e dell’opera. La preparazione, l’aderenza sia fisica che vocale di tutto il cast è stata assolutamente encomiabile, concorrendo in modo determinante al grande spettacolo a cui abbiamo assistito.

Tutti da citare, a partire dall’ottimo Nick di Kevin Conners, simpatico e sornione nel primo atto, dolce e comprensivo nel finale, egli delinea un alter ego di Minnie perfetto, sgranando una solida e limpida voce tenorile. Tim Kuypers era un Sonora, rozzo e beffardo dall’ottima proiezione vocale e dalla notevole partecipazione scenica. Bàlint Szabò un Asbhy sonoro e convincente. Sugli scudi tutto il gruppo di minatori, per le ottime performance vocali e il grande gioco scenico di insieme. Qua e là si è notata qualche mancanza nella dizione italiana largamente perdonabile. Il gruppo di cantanti era formato infatti da artisti provenienti dalle più diverse nazionalità, proprio come dovrebbe essere per i minatori di Puccini: Roberto Covatta era Trin, Roman Chabaranok Sid, Benjamin Taylor Bello, Andréas Agudelo Harry, Jonas Hacker Joe, Martin Snell Happy, Blake Denson Larkens, Daniel Noyola Billy Jackrabbit, Sean Michael Plumb Jake Wallace, Thomas Mole Josè Castro, Ulrich Ress un Postiglione. Una menzione poi a Lindasy Ammann per la spassosa interpretazione dell’indiana Wowkle.

Daniele Rustioni dirigeva l’orchestra di stato Bavarese con piglio deciso e accenti contemporanei, a tratti espressionisti. Il direttore italiano propone una concertazione raffinata, riserva il giusto peso al dettato sinfonico e al coté sperimentale pucciniano, stagliando ogni assolo con nitore e precisione. Non sempre a fuoco il rapporto con il palcoscenico, con l’orchestra che a volte sovrastava i cantanti.

Una splendida serata d’opera in una Bayerische Staatsoper praticamente esaurita. Lunghissimi applausi nel finale per tutti gli interpreti, con vere ovazioni per il terzetto di protagonisti.

















 
 
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