Connessi all'Opera, 15 Dicembre 2021
Paola De Simone
 
Verdi: Otello, Teatro San Carlo Napoli ab 21.11.2021

Napoli, Teatro San Carlo – Otello
 
Pallido assai è il volto del Moro, e non solo per l’assenza di razza e di colore sulla pelle, così come portato in scena pur fra gli applausi dall’Otello in apertura di stagione al Teatro San Carlo di Napoli con il nuovo e moderno allestimento “militare” firmato dalla regia di Mario Martone. Allestimento in troppi punti scollato tra impianto visivo e partitura, per quanto spinto da strumenti e voci comunque non esenti da sfocature di ruolo, in quella bomba di drammaturgia musicale già pronta e dalla sperimentazione a tutt’oggi ben viva in sé qual è il potente dramma lirico dell’apicale trinomio Verdi più Boito da Shakespeare a fuoco nel penultimo scorcio di secolo e catalogo. Nonostante la scelta di una firma registica più volte premiata ma non infallibile, di una bacchetta di pregio riconosciuto, di un’Orchestra sollecita, di un Coro istruito finalmente a dovere e di un cast di prim’ordine giunto dopo praticamente un mese fra prove e spettacoli all’ultima recita – quella spalle al muro assegnataci – con ugole e corde a tratti sfiancate.

Valutando a occhi chiusi l’intero assetto architettonico-musicale, genialmente costruito da compositore e librettista sparando al netto di Sinfonia e in serrata sequenza al primo atto tre diversissimi, massicci pannelli corali ad alto potenziale scenico da cui far germinare e risaltare a contrasto la soave intimità notturna del duetto d’amore fra i coniugi, ben si distingue la miccia metrico-dinamica accesa da Michele Mariotti sul podio e alla guida dell’Orchestra della Fondazione, sin dal levare della primissima battuta allargando l’irta scaletta di biscrome allo strappo d’undicesima di dominante sferzato in attacco. E, di lì, cavalcando a tutta velocità tra lampi, onde, vento e flutti, fasci sovrapposti di idee, suoni molto staccati, climax e precipizi. Il tutto con buon rimbalzo di tinta e tenuta sul Coro, va detto, ottimamente curato per taratura ritmica, sonorità verdiane e forza d’impatto dal maestro José Luis Basso.

Aprendo gli occhi, però, nulla di tutto ciò compare in palcoscenico: una staticissima, accalcata fila di coristi con caschi, mascherine e tute mimetiche si staglia infatti come un muro umano in prima linea, separato anche dalle luci. Sullo sfondo, ma soltanto lì, resta relegata la tensione cinetica del quadro, fra i bagliori dei fulmini (tanto evidenti, invece, già nell’isolata esclamazione dei loro lemmi attraverso cui avvistano in libretto le singole parti dell’imbarcazione del moro condottiero dell’Armata veneta, con tanto di scoppi dei tuoni in buca), il mare in tempesta e il ribollire delle nubi scure, con videoproiezioni e teli agitati. E da lì, a malapena, si scorge un gommone che sfila in maniera piuttosto elementare avanti e indietro (en passant, canotto a motore, profughi veri e quant’altro li abbiamo già visti ma in migliore soluzione nell’Idomeneo romano di Carsen, parimenti diretto da Mariotti) fino allo sbarco fuori pericolo di alcuni civili salvati. Fra questi e i soldati, a stento, si riconosce l’Otello bello ma bianco di Jonas Kaufmann, almeno fin quando non esordisce in declamato melodico con il suo marmoreo, monolitico più che svettante “Esultate!”.

A occhio e croce, stando all’accampamento militare poggiato su un terreno sabbioso e alle spalle dominato da un cielo minutamente stellato tipo fondale per re magi e presepe, ci troviamo in Palestina o, comunque, in Medio Oriente. Poco importa se il luogo non sia Cipro e non vi sia il prescritto esterno del castello; se l’epoca non è certo l’ultimo Quattrocento e l’asse del tempo sia stato aggiornato ai tempi di guerra a noi più vicini, con donne in armi nello stesso esercito degli uomini, Desdemona compresa. O che il fazzoletto non sia di pizzo bianco e arcano ma un foulard da collo in grezzo cotone rosso. Ciò che a nostro avviso proprio non funziona del nuovo allestimento sancarliano in coproduzione con il Massimo di Palermo, con le scene di Margherita Palli, i costumi di Ortensia De Francesco e i video atmosferici di Alessandro Papa, è la mancanza di una vera intesa con l’esatta levatura di fibra poetico-drammatica e musicale qui esplicita, come non mai, fra versi e partitura che non intendono imitare, ma inventare il vero. Vale a dire, oltre alla già sprecata scena della tempesta (“Dio, fulgor della bufera!”), ci si interroga sull’effettiva necessità di coprire quel meraviglioso crepitìo onomatopeico delle prime fiamme che si levano efficacemente dall’orchestra all’accendersi dei falò con i secchi colpi in aria di mitraglia, sparati in troppo banale corrispondenza con l’incipit corale “Fuoco di gioia!”, tra l’altro con luci (del pur bravo Pasquale Mari) appiattite al suolo giusto per raffreddare ulteriormente l’atmosfera. E a poco serve quella rara attenzione prestata alla scrittura dalle voci istruite da Basso (l’abruptio inserita sul ribattuto quale emozionato singulto a staccare nel mezzo la parola “gioia”) quando l’occhio dello spettatore finisce col perdere poesia e filo della musica all’ingresso di un gruppetto di entraîneuses (in verità accompagnate da uomini di pari specie) in short inguinali, camperos e gilettini più cappelli zebrati alla cowboy che volgarmente twistano volgendo il fondoschiena in faccia ai militari seduti in circolo o mimando atti sessuali. L’allegro intrattenimento attraversa anche quel capolavoro ditirambico e di diffrazione tonale che è il brindisi (“Innaffia l’ugola!”) abilmente sfruttato da Jago quanto argutamente scolpito da Boito e da Verdi, fino a trasformarsi in una rissa (il ferimento con la spada di Montano da parte dell’ubriaco Cassio) a botte di calci, pugni e violente testate. Sintetizzando il resto: ancora il fondale stellato per la camera di Otello e Desdemona chiude il duetto “Già nella notte densa” in una dimensione da bacio Perugina; all’atto secondo un sipario in sbiadita ondulina metallica isola il feroce Credo di Jago e ritorna per ulteriori numeri di scavo psicoanalitico per poi levarsi su un ospedale da campo al cui interno non si vede e neanche si comprende il senso del Coro di festa “Dove guardi splendono raggi”, intonato da donne, fanciulli e marinai al dolce pizzicato di mandolini e chitarre per accogliere Desdemona che presta, intanto, le sue cure a malati e bisognosi. A seguire, un deserto con rovine per il racconto di Jago. Il terzo atto prende forma in un villaggio color ocre tipo Algeri in parallelo al crescere della gelosia incontrollata di Otello e dell’invidia in Jago, entrambi sempre più violenti con le rispettive mogli. Infine la stanza di Desdemona: un container a due ambienti, con Emilia stravaccata sulla sedia a guardare un programma in tv e lei rannicchiata sul letto che intona una magnifica Canzone del salice, quindi un’Ave Maria con pistola in pugno. Pistola inutile perché Otello la soffocherà ugualmente e, al ritorno simmetrico del wagneriano tema del bacio, bacerà il nulla perché, intanto, il cadavere dell’innocente madonna veneziana è stato già portato via.

Che dire, di armi e di femminicidi – diretti o indotti che siano – le trame d’opera se ne cadono letteralmente. Peculiarità da tirar fuor semmai, una volta fatta fuori la partita a scacchi sulla diversità di razza, poteva essere l’antinomìa fra una sempre più rara componente spirituale (qui del tutto latitante scenicamente e, in gran parte, anche vocalmente) a fronte dell’odio, il cieco male macchinato con melliflua astuzia e ancor peggio perpetrato con mefistofelico inganno.

In assoluto sugli interpreti, pur tenuta in conto la comprensibile stanchezza riscontrata un po’ ovunque nelle voci e a parte il caso del personaggio eponimo affidato al tenore tedesco, eccezionalmente presente anche all’ultima recita in luogo dell’inizialmente previsto Yusif Eyvazov, la corrispondenza fra prestazione e ruolo si è rivelata relativamente centrata.
Si diceva, protagonista a parte. L’Otello di Jonas Kaufmann s’impone infatti per un’esatta cifra timbrica e di stile, non necessariamente vincolata alla più o meno generosa proiezione dei suoni, non di rado in posizione chiusa o introiettata, ma sempre ben salda nell’intonazione come nella fermezza di parole e note, in unione a una sapiente chiarezza del pensiero musicale. Scenicamente è un moro bianco ma, grazie al cielo, di raro fascino virile. La sua emotività è visibilmente incontrollata, come da copione sia in politica che in amore mostrandosi, fra gesti e nervi tesi, uomo fragile perché di istintiva passione, impulsivo e collerico, in conflitto persino con se stesso diviso com’è fra l’orgoglio e la sua crescente insicurezza. La sua parte in pentagramma, si sa, è fra le più ostiche quanto a gestione di un rapporto testo-musica continuamente al confine fra recitazione e canto, fra quadrature e schemi irregolari, scavo e impennate, sfumature espressive molteplici che Kaufmann, in ogni caso, ben governa ricorrendo a un uso sempre nobile del legato, delle mezze voci, delle emissioni di forza ben tornite in declamato e talvolta aiutate all’acuto con qualche colpo di gola (toccando il “paradiso” nel primo duetto).
Sul fronte opposto si colloca l’alfiere Jago restituito da Igor Golovatenko da ottimo ma generico baritono verdiano. Ossia, con volume sonante, ampio e morbido, ottima padronanza scenica e pasta sonora scura, ma ben poco duttile nel restituire le pieghe infide e serpentine o gli inquietanti accenti in grado di svelarne la subdola “ragna” e condotta. Anche il suo vibrante Credo alla seconda scena del secondo atto, per quanto eseguito con lodevole plasticità e precisione, non dà vita alla scapigliata densità di scavo garantita da quegli affondi raggelanti (da lui viceversa svuotati e stimbrati) e scherno irriverente che la penna di Verdi e il nichilismo poetico di Boito affidano alla più blasfema dichiarazione di fede nel male in musica.
Su un piano ancora una volta diverso va osservata la prova del soprano Maria Agresta per Desdemona, di fatto nella versione Martone non la donna remissiva, limpida e così devotamente accondiscendente nei confronti di Otello, nata insomma solo “per amarlo e per morir”. Tanto da mostrarsi autonoma e attiva nell’esercito, pronta a lottare con forza inattesa contro i sospetti e le violenze del marito, ad azzannargli una mano e a lanciare per aria il tavolo da campo con un gesto di stizza odiosa. E perché no, nell’impugnare l’arma mentre prega la Vergine Maria secondo una scelta di scena ben più blasfema rispetto allo stesso monologo di Jago che Boito, appunto al quarto atto, intendeva controbilanciare con una purissima e drammaticamente presaga Ave Maria. Maggiormente in linea con una più moderna donna, la Desdemona in campo non presenta nella sua corda trasparenze adamantine e in perenne tensione verso il trascendente (qualche cedimento nella linea di canto si nota nel primo corso anche per lei con strani falsetti nel declamato in tessitura medio-grave, discontinuità di frase e squilli talvolta aspri) quanto, piuttosto, piena tempra lirica, ricerca dei colori, preziosi filati all’acuto e persino grinta indomita nel dar forma originale ai suoi ultimi due numeri.
Intorno apprezzabile, per quel poco che canta, l’Emilia della brava Manuela Custer, prestante ma troppo scuro per una parte da tenore lirico leggero il Cassio di Alessandro Liberatore, spesso e volentieri camaleontico per timbro fra gli altri rappresentanti della deputazione veneziana. Bene i restanti Matteo Mezzaro (Roderigo), Emanuele Cordaro (Lodovico), Biagio Pizzuti (Montano) e l’araldo del meritevole corista Francesco Esposito.
Fra i momenti musicali più alti, si segnalano infine l’ampio Concertato “Quell’innocente un fremito” costruito ad arte da Michele Mariotti e da lì, entro un unico arco drammatico, l’intero atto finale.




















 
 
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