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OperaClick, 30 Oct 2020 |
Silvano Capecchi |
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Konzert, Bologna, PalaDozza, 25. Oktober 2020
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Bologna - PalaDozza: Gala Jonas Kaufmann |
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Gli sforzi dei teatri italiani per mettersi al riparo dal rischio di
contagio da Covid-19 non sono serviti ad evitare una nuova chiusura. Non è
questa la sede per esprimere giudizi riguardo al provvedimento, ma non posso
fare a meno di esprimere l’amarezza per veder ancora una volta penalizzata
la cultura nel nostro paese, invece di essere protetta con interventi
significativi tesi a garantire una maggiore sicurezza di artisti e
lavoratori dello spettacolo (il pubblico, con le misure di distanziamento e
difesa adottate, correva già adesso rischi irrilevanti).
Dunque il
Teatro Comunale di Bologna, in trasferta al PalaDozza, prima della
sospensione dell’attività al pubblico, metteva a segno un “colpaccio”
assicurandosi la presenza di una delle star più acclamate del momento, Jonas
Kaufmann. In verità sarebbe dovuta intervenire anche un’altra stella del
firmamento lirico, Anita Rachvelishvili, la quale, impossibilitata a
intervenire, veniva sostituita da una cantante che negli ultimi anni si è
guadagnata una certa notorietà a livello internazionale, Clémentine
Margaine.
Ascoltavo il mezzosoprano francese dal vivo per la prima
volta, quindi il giudizio deve essere preso con le molle sia perché sono del
parere che non ci si possa fare un’idea precisa di un artista con una
singola esibizione (che può essere gravata da tutta una serie di
imponderabili circostanze), sia per il fatto che il concerto era mediato da
un impianto di diffusione del suono; cosa che impediva innanzitutto la
percezione della reale capacità di penetrazione della voce, mentre tutta una
serie di effetti acustici, come il riverbero del suono, l’alterazione degli
armonici, ecc., non consentivano una serena fruizione dell’esibizione.
Comunque da questa esperienza di ascolto la Margaine mi è sembrata un
mezzosoprano che gioca le sue carte migliori nella seconda ottava, mentre
nel resto della gamma dava l’impressione di una voce di minore espansione. È
parsa a suo agio soprattutto come Carmen (duetto finale e Séguédille,
eseguita come bis), non a caso uno dei suoi ruoli più frequentati, mentre in
Mon cœur s’ouvre à ta voix, oltre a carenza di sensualità si evidenziavano
alcune fissità per niente gradevoli; abbastanza apprezzabili gli interventi
come Amneris (duetto con Radamès) e Principessa di Bouillon (aria all’inizio
del secondo atto).
Ma veniamo al motivo di vero interesse del
concerto. La chiusura dei teatri dell’America del nord e di alcuni europei
di prestigio hanno reso disponibili tutta una serie di divi che le sale
italiane (Scala esclusa) si potevano solo sognare, dato il cronico ritardo
della nostra programmazione. Così negli ultimi tempi sono stati messi a
segno eventi straordinari come Aida e Tosca in Piazza plebiscito a Napoli
con lo schieramento di Netrebko, Rachvelishvili, Kaufmann e Tézier, mentre a
Firenze sono passati nella medesima settimana Flórez, Bartoli e Domingo
(assenti su piazza, rispettivamente, dal 1998, 1992 e 1971). E ora Bologna è
riuscita ad accaparrarsi Kaufmann, al suo debutto in loco.
“Decifrare” la resa del tenore nonostante le particolari condizioni di
ascolto dovute all’ambiente (un Palazzetto dello sport) e all’amplificazione
del suono è stato più semplice per averlo ascoltato molte volte, anche dal
vivo, per cui non mi potevo far ingannare dal volume della voce, che poteva
apparire molto più sonora di quanto non lo sia effettivamente per uno
spettatore che lo sentiva per la prima volta. Indiscutibile e ben
percepibile era invece la sicurezza con cui Kaufmann gestiva il suo
strumento, nonostante un uso dello stesso personalissimo e spesso non in
linea con le regole di un canto cosiddetto “ortodosso”. E qui ci sarebbe da
aprire un lungo discorso a tal proposito. Basterà ricordare che, dato e non
concesso che esista un’unica tecnica ortodossa, le testimonianze
discografiche dalla fine del diciannovesimo secolo ad oggi illustrano quanto
i mutamenti del gusto siano stati supportati da aggiustamenti nel modo di
gestire la voce, che in certi casi hanno causato vere e proprie rivoluzioni,
con conseguenti schiere di nostalgici del buon tempo andato e sostenitori
degli “innovatori”. Innovatori che in qualche caso hanno dato il via a vere
e proprie scuole e, una volta “digeriti”, sono stati accettati come
legittimi, benché al loro apparire fossero stati oggetto di aspre critiche e
feroci distinguo. Ma il discorso sarebbe lunghissimo e non è detto che prima
o poi non lo riprenda.
Dunque tornando a Kaufmann: certamente è un
cantante che divide il pubblico, soprattutto nel nostro Paese, dato che il
suo tipo di emissione è lontano dalla più classica tradizione italiana, che
salvaguarda l’uniformità e l’omogeneità della gamma vocale. L’artista
tedesco (pressoché indiscusso nel repertorio operistico wagneriano,
straussiano e ancor più nel Lied) punta invece di più sull’espressività e
sulla ricerca coloristica con una varietà dinamica spinta talvolta
all’estremo. Certi assottigliamenti possono talvolta sconfinare in suoni
strani in odore di falsetto, ma che falsetto non sono, dato che possono
essere rinforzati fino al forte senza fratture. Non è un canto all’italiana
e molti lo sentono estraneo alla nostra sensibilità a causa di certi suoni
in sospetto di gutturalità nella loro tinta brunita e di una ricerca
espressiva capillare, pur se non spinta all’estremo, come nel caso di certi
suoi colleghi della medesima nazionalità. Kaufmann si è creato una tecnica
sua, a suo modo infallibile, con la quale riesce a creare effetti del tutto
coerenti con i suoi intenti esecutivi. Così abbiamo innanzitutto delle
letture per gran parte fedeli alla pagina scritta, con personaggi vivi e
credibili nella loro essenza teatrale e non privi di una loro baldanza
servita da accenti virili uniti a un registro acuto sicurissimo, pur se non
radioso. A ciò va aggiunta una presenza accattivante e una comunicativa
fuori dal comune, ma soprattutto fuori dagli schemi del tenore classico. Non
sappiamo se Kaufmann diverrà un caposcuola; certo è che il suo modo di
proporsi viene recepito con entusiasmo da coloro che lo seguono assiduamente
e gli tributano successi trionfali, come nel caso del concerto di cui stiamo
riferendo.
Il primo brano eseguito era Cielo e mar da La Gioconda di
Ponchielli, la sua prestazione meno convincente: resa un poco faticosa,
soprattutto nella prima parte, con qualche imprecisione di lettura. Seguiva
un Improvviso da Andrea Chénier di Giordano più incavolato che poetico, pur
se tutto sommato efficace vocalmente. Ma le cose iniziavano a cambiare con
un duetto Amneris – Radamès piuttosto ispirato e soprattutto con l’Addio
alla madre da Cavalleria Rusticana di Mascagni, il primo vero colpo d’ala
del grande interprete, teso a creare un Turiddu instabile, incapace di
nascondere il tumulto interno; il tutto con una sobrietà di mezzi di grande
efficacia. Forse all’inizio la voce era ancora fredda e il cantante aveva
bisogno di prendere le misure con l’ambiente. Fatto sta che da questo
momento in poi l’atmosfera in palcoscenico si faceva sempre più intrigante,
mentre il clima in sala era sempre più arroventato. Dopo aver riproposto il
suo ben noto Don Alvaro, disilluso, oppresso dal destino, amaro, Kaufmann
faceva capire quale dovrebbe essere il ruolo del grande interprete. Quello
cioè di dannarsi l’anima per cavare dalla pagina scritta i significati più
reconditi e, adattandoli alle proprie caratteristiche vocali ed espressive,
trovare una via originale per proporla al pubblico. E con l’aria di Éléazar
dal quarto atto de La Juive di Halévy l’obbiettivo era perfettamente
centrato. Credo di non aver mai sentito il terribile ebreo così lacerato,
vacillante nel suo atroce proposito di vendetta. E la ripresa del tema
iniziale a mezza voce nella seconda parte dell’aria era qualcosa che
lasciava col fiato sospeso. Non so se Kaufmann, a questo punto della
carriera, riuscirebbe a sostenere alcuni momenti dell’opera particolarmente
onerosi, ma certamente un suo debutto nel ruolo sarebbe estremamente
interessante. Il duetto finale di Carmen non riservava altrettante sorprese,
ma solo perché il Don José del tenore è universalmente noto. E poi i bis.
Dopo un Non ti scordar di me detto un po’ in stile crossover arrivava un
altro dei momenti magici della serata: E lucevan le stelle da Tosca di
Puccini. Anche il suo Cavaradossi è conosciutissimo e portato in tutti i più
importanti teatri del mondo; pure riesce sempre a sorprendere per il
controllo assoluto del fiato, per la ricchezza degli effetti dispensati, mai
fine a se stessi e sempre tesi ad una coerente costruzione del personaggio,
fermo restando il rispetto della quadratura musicale. Le insistenti
acclamazioni ottenevano altri due brani: Nessun dorma, ormai presente in
ogni concerto tenorile, fosse pure quello di un peso piuma, e Tu che m’hai
preso il cuor, eseguito in versione bilingue tedesco-italiano.
Sul
podio Asher Fisch confermava la sua solidità e professionalità con letture
magari non ricercatissime quanto a colori e sottigliezze, spiccando di più
nel repertorio francese che in quello italiano. Sotto la sua guida
l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna confermava la sua qualità e il
buon livello dei suoi solisti.
In platea tra il pubblico acclamante
spiccava una plaudente Raina Kabaivanska, sempre fascinosa ed elegante.
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