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L'ape musicale, 29 Luglio 2020 |
di Luigi Raso |
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Verdi: Aida, Neapel, ab 28. Juli 2020
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Il trionfo svelato |
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La direzione illuminante, cesellata e teatralissima di Michele Mariotti
porta in trionfo l'Aida in Piazza del Plebiscito con una compagnia di canto
eccellente (Pirozzi, Rachvelishvili e Kaufmann protagonisti), capace di
rivelare con dovizia di mezzi tutta la raffinatezza e tutte le sfumature del
capolavoro verdiano.
Di vincitori in questa Aida, allestita dal
Teatro San Carlo nell’enorme spazio di Piazza del Plebiscito a pochissimi
giorni di distanza dal successo di Tosca (la recensione), ce ne sono molti:
incontriamoli uno ad uno.
Il primo ad aver contribuito a vincere la
scommessa di Aida in forma di concerto è il direttore Michele Mariotti che
firma - al debutto in quest’opera - una delle migliori interpretazioni della
propria fulgidissima carriera.
Proviamo a spiegare perché: che
Mariotti sia tra i più interessanti direttori verdiani (e non solo) in
circolazione è un dato conquistato sul campo e da tempo acclarato; tuttavia
a stupire sono la maturità e il senso di compiutezza del primo approccio ad
Aida, sbalorditivo per molteplici aspetti.
Analizziamone qualcuno. Il
direttore marchigiano dimostra di aver metabolizzato l’insidiosa partitura,
di conoscerla a fondo, battuta per battuta, come se la frequentasse da
decenni; di Aida ha un’idea personale, ben definita e innovativa. Un visione
che, partendo dall’esaltazione dell’aspetto intimistico e quasi cameristico
che aleggia intorno alla tragedia del triangolo amoroso Radames - Aida -
Amneris, si concilia magistralmente con l’aspetto trionfalistico della
partitura, ma da Verdi stesso relegato alla Scena II del secondo atto, eppur
ritenuto preponderante da certa tradizione esecutiva. Mariotti ci fa
scoprire che, però, quello è un Trionfo effimero, che prelude all’evoluzione
del dramma, vissuto e racchiuso nella solitudine dei personaggi.
Seguendo questa sintesi, sin dal Preludio l’opera è immersa in un’atmosfera
notturna, rarefatta, di macerato e trepidante intimismo; l’ascolto attento
rivela l’attenzione maniacale per i particolari, il rispetto dei segni
dinamici e d’espressione che Verdi scrive e prescrive e che (ancora!) troppo
spesso vengono spianati con eccessiva superficialità. Si ascoltano -
certamente non nelle migliori condizioni acustiche possibili: siamo pur
sempre in uno spazio all’aperto e con amplificazione - i piani e pianissimi,
i crescendo e i diminuendo, particolari che ci inducono a immaginare quale
meraviglia sarebbe stato l’ascolto all’interno di un teatro. L’occasione è
solo rimandata: nel febbraio 2021, all’Opèra Bastille di Parigi, Mariotti
riproporrà Aida insieme a Kaufmann, Radvanovsky, Garanča e Tézier (leggi
l'intervista).
Proseguendo nell’analisi, notiamo che Mariotti sceglie
i tempi più opportuni, perfetti nel garantire coerenza drammatica a tutta
l’opera: è un’Aida tesa come un arco, che procede spedita, e senza
rinunciare a sostenere le ragioni del canto; anzi, l’orchestra di Mariotti,
canta, sussurra, declama e tuona insieme a Radames, Amneris, Aida e
Amonasro. Non c’è stringendo o ritardando che non sia coerente con la
visione d’insieme; quando Mariotti rallenta o adopera, sempre in modo
appropriato, il rubato è attento a che il pnèuma che soffia all’interno
della partitura resti sempre palpitante.
E così si ascoltano accenti
(stupendi quelli dell’introduzione strumentali alla fase più drammatica del
duetto Aida - Amonasro del III atto “Padre! A costoro schiava non sono…”)
che rivelano un’Aida “nascosta”, priva di incrostazioni e appesantimenti,
vitale e, volendo adoperare un unico aggettivo, contemporanea. In quel
momento, uno dei più drammatici dell’opera, Aida è lacerata tra amor di
patria, amore per Radames e obbedienza agli ordini del padre. L’orchestra di
Mariotti ci fa sentire e percepire il palpito del tormento interiore della
schiava etiope.
Alla Danza di piccoli schiavi mori imprime scintillio
ritmico e luminosità sonora, così come ai ballabili che precedono il
Trionfo, momento nel quale si crea una sorprendente coesione tra coro e
orchestra. È un Trionfo solenne, ma che rifugge dalla tentazione di
compiacersi in sonorità telluriche delle percussioni o di ottoni fracassoni;
si preserva, invece, un perfetto equilibrio fonico tra le sezioni
orchestrali.
E poi c’è l’atto III: un bozzetto ad acquerello sospeso
in notturno al chiaro di luna sulle rive del Nilo, nel quale il bellissimo
impasto tra legni e archi creano effetti sonori stupefacenti.
Nel
finale dell’opera, laddove Verdi prosegue nelle trasfigurazioni in
pianissimo della morte (si pensi a Simon Boccanegra, La forza del destino,
e, successivamente, Otello), Mariotti rarefa l’orchestra, allarga
leggermente i tempi, fa librare nel cielo napoletano il canto sinuoso di
Kaufmann e Pirozzi, invitando l’orchestra ad accarezzare (il suo gesto è
quanto mai eloquente) gli ultimi sussulti degli sfortunati amanti.
In
definitiva, quella di Mariotti è una lettura improntata a spiccata
teatralità, rivelatrice di particolari dinamici ed espressivi che consentono
di godere di un’Aida innovativa, lontana dalla trita retorica routinier
trionfalistica e fracassona.
È un’Aida nella quale si susseguono
momenti lirici e di intensamente drammatici, in cui convivono gli echi del
Verdi battagliero degli inizi (“Guerra! Guerra!”), quelli della maturità
artistica, e dai quali germogliano il linguaggio di Otello e le gemme
strumentali e lo scintillio orchestrale e ritmico di Falstaff.
Una
concezione di Aida illuminante al pari di quella della Bohème diretta dallo
stesso Mariotti a Teatro Comunale di Bologna nel gennaio del 2018.
L’orchestra del San Carlo, alla quale il lungo lockdown non ha minimamente
incrinato la coesione interna, compattezza e cesello sonori, è perfetta
nell’assecondare le indicazioni che Mariotti - con una gestualità che sembra
invitare più che ordinare, e che sempre più ricorda quella
dell’indimenticabile Claudio Abbado - chiede alla compagine orchestrale.
Il suono è curato e compatto in tutte le sezioni; eccellente la prova
degli ottoni e delle trombe egiziane nella scena del Trionfo. Merita un
complimento la prima tromba di Fabrizio Fabrizi, il cui suono, sempre
distinguibile e dal colore argènteo, spicca in tutti gli interventi.
Il Coro del San Carlo, diretto da Gea Garatti Ansini, conferma la buona e
affidabile prova già ascoltata in Tosca: risulta compatto, tendenzialmente
preciso e di buon suono.
Passando a esaminare il cast si resta
stupiti dalla vocalità debordante e torrenziale dell’Amneris di Anita
Rachvelishvili, la quale impressiona per il colore estremamente brunito da
autentico mezzosoprano drammatico, per l’ampiezza del registro grave,
scurissimo e avvolgente. A fronte di lussuosi mezzi vocali, a colpire è
anche l’interpretazione sfaccettata: è un’Amneris di grande temperamento,
innamorata, gelosa, vendicativa e, infine, implorante. Non manca nessuna
declinazione della complessa psicologia della figlia del Re d’Egitto, ma
ogni minima piega è esaltata da mezzi vocali debordanti, impressionanti per
volume, colore, ampiezza, dominati da sicuro dominio tecnico a servizio di
un’interpretazione incandescente per espressività e acume. Memorabile
l’intera Scena del Giudizio e, in particolare, l’invettiva ai Sacerdoti
(“Sacerdoti: compiste un delitto!”) che il mezzosoprano georgiano pone a
coronamento di una prova magistrale: convince per la spontaneità di una
linea di canto che, grazie a una vocalità naturalmente possente e spontanea,
non necessita di forzature o di artificiosi ispessimenti sonori.
La
carismatica interpretazione di Anita Rachvelishvili al termine viene
salutata con calorosissimi e meritatissimi applausi.
L’Aida di Anna
Pirozzi per compattezza dei registri vocali, ampiezza vocale, bellezza del
timbro non teme il confronto con l’Amneris della Rachvelishvili.
Pur
in possesso di voce ampia, ben timbrata, Anna Pirozzi, alleggerendo
l’emissione, ottiene piani e pianissimi ben sostenuti e di grande intensità,
i quali contribuiscono a delineare un’Aida dolente, a tratti trasognata (“O
cieli azzurri), remissiva e tormentata nel piegarsi all’autorità del padre
Amonasro. Il suo spessore vocale è naturalmente tanto ampio che a volte
sembra risultare quasi sovrabbondante rispetto a quanto richiesto dalla
parte, eppure il dominio della tecnica le consente di governare con
sicurezza la linea di canto, nel fiato, nel legato e nelle dinamiche.
L’interpretazione della Pirozzi, soprano proiettato e acclamato nelle
parti più impervie dell’intero repertorio, è partecipe di quella visione
intimistica e ricca di sfumature che Mariotti ha di Aida: l’intesa tra
soprano e direttore è percepibile sin dall’inizio, ma è nel finale che
Pirozzi, Kaufmann e Mariotti - con in sottofondo il salmodiare plumbeo e
funerario del “Pace t’imploro, pace, pace, pace!” dell’Amneris di Anita
Rachvelishvili - che la sintonia espressiva raggiunge la vetta più alta.
Perentorio, dotato di bel timbro scuro, è l’Amonasro di Claudio Sgura:
vocalità genuina, generosa, fraseggio attento ai segni dinamici e espressivi
della parte delineano un Amonasro autorevole e sicuro, mai sopra le righe e
che si fa ben notare sin dalla sortita “Questa assisa ch’io vesto”, cantata
con accento regale. Il baritono salentino è particolarmente intenso nel
duetto con la figlia nel terzo atto dove sfoggia un bel legato nella frase
“Pensa che un popolo vinto straziato per te soltanto risorger può!”.
Ieratico e dotato di bel timbro e solida vocalità il Ramfis di Roberto
Tagliavini, così come il Re d’Egitto di Fabrizio Beggi, dalla voce ampia e
timbrata; colpisce per purezza di timbro da autentico soprano lirico la
Sacerdotessa di Selene Zanetti, la quale interpreterà Mimì nella Bohème che
inaugurerà la prossima stagione lirica del San Carlo. Efficace e funzionale
all’economia generale della rappresentazione è il Messaggero di Gianluca
Floris.
Last but not least il Radames di Jonas Kaufmann che
(finalmente!) debutta a Napoli interpretando un’opera lirica. Le precedenti
presenze del tenore bavarese al San Carlo erano limitate a una Die Schöpfung
dispersa nella notte dei tempi (2004) e a un recital di canzone napoletane e
italiane nel 2016.
Così come Anna Netrebko per la precedente Tosca,
Jonas Kaufmann è il fulcro di questa Aida in Piazza del Plebiscito.
La tecnica vocale del divo è argomento estremamente divisivo tra i melomani
e “vociomani”; ci limitiamo ad affermare che Kaufmann ha l’innegabile merito
di essere riuscito a costruirsi una tecnica di emissione sicuramente
eterodossa e per molti aspetti discutibile, ma al servizio delle proprie
spiccate potenzialità espressive. Si potrà legittimamente obiettare, dunque,
che le mezzevoci siano emesse in falsetto, che la posizione del suono sia
tendenzialmente indietro, che la voce tenda a volte a stimbrarsi. Tutto
vero. Ciò che ci interessa è, però, il risultato interpretativo: e nel caso
di Kaufmann, complice il timbro ammaliante, caldo e brunito, esso è
innegabilmente suggestivo, di notevole espressività e introspezione, al di
là delle riserve relative agli aspetti squisitamente tecnici.
Sin da
“Se quel guerriero io fossi!”, spaurito e dubbioso, Kaufmann dimostra di
essere in perfetta sintonia con la visione che Mariotti ha di Aida: il suo è
un Radames innamorato, trasognato, che vagheggia la sua amata. Il “Celeste
Aida” è sussurrato, dal fraseggio sfumato, rispettoso delle prescrizioni
dinamiche che Verdi pretende, e con il si bemolle del “trono vicino al sol”
sfumato in pianissimo, dopo una messa di voce.
Il Radames di Jonas
Kaufmann è, anche, molto più che un giovane innamorato: non manca di piglio
guerriero e decisionista quando la parte lo richiede. Sono stentorei il
“Nume, che duce ed arbitro” e il “Possente Fthà!”; nel duetto del III (“Pur
ti riveggo, mia dolce Aida!”) il tenore sintetizza un canto sfumato ed
eroico, dagli accenti malinconici e amorosi. Alleggerisce e stempera in un
piano su “il ciel dei nostri amori”, per poi chiudere l’atto con un
“Sarcedote, io resto a te” possente e tenuto a lungo. Il canto di Kaufmann
si fa più arroventato nel duetto con Amneris nell’atto IV, in cui sfoggia
acuti squillanti che anticipano le frasi lavorate di cesello, sospirate, di
“La fatal pietra sovra me si chiuse”.
Al termine applausi calorosi e
prolungati sono equamente tributati a tutti gli artefici dell’opera, con
punte di vivo entusiasmo per la stratosferica Amneris di Anita
Rachvelishvili e per la direzione di Michele Mariotti.
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