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Classic Voice |
Elvio Giudici |
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Verdi: La forza del destino, London, ab 21. März 2019
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Verdi – La Forza del destino – Royal Opera House |
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LONDRA – Capita molto di rado, ormai, uscire da teatro con la salda
convinzione d’avere assistito a una serata storica: figuriamoci poi se la
serata è dedicata a Verdi, e figuriamoci se l’opera è la Forza, carogna tra
le massime da realizzare musicalmente e scenicamente. Ma storica, questa
Forza non ho dubbi lo sia: ed essendo prevista la sua diffusione nei cinema
(il 2 aprile alle 19:15, ndr) quindi alla portata di tutti – ci sarebbe
davvero da intonare “Viva viva la follia” come fa il coro nell’accampamento
di Velletri.
Lo spettacolo è quello nato ad Amsterdam con Michele
Mariotti sul podio, e ne ho già straparlato su “Classic Voice”, quindi solo
due parole.
La scena sostanzialmente fissa è una stanza, quella
dell’involontario omicidio che mette in moto la forza del destino e che
attraverso alcune proiezioni in bianco e nero comprendiamo resti ossessiva
idea fissa nella mente di Leonora, Alvaro e Carlo. Molte idee azzeccate:
cito solo Alvaro che si concede un “relax” con Preziosilla, giacché ormai
Leonora è “in seno agli angeli” e lui invece no; o la stessa Preziosilla e
Trabuco presenti alla mensa dei poveri, distrutti, gli occhi sbarrati sul
vuoto, a dirci come “è bella la guerra” sia una gran balla.
Gestualità articolatissima condotta sui singoli e ancor più sulle masse,
apice inarrivabile la monumentale scena dell’accampamento, resa un
portentoso pezzo da musical dove le masse son fatte muovere con
un’articolazione di sbalorditiva fluidità, frammiste a otto mimi-ballerini
che terremotano tutta la lunga scena portandola quasi al parossismo: e al
centro, Preziosilla-Simeoni. Che avrebbe cantato superbamente lo
s’ipotizzava, ben conoscendone bellezza timbrica, tecnica scaltrita,
musicalità, doti eccelse di fraseggiatrice. Ma si resta basiti nel vedere
Veronica ballare con una flessuosità, un’eleganza e uno scatenamento simili,
tra un accenno di danza del ventre e un vorticare sopra le braccia dei mimi
mentre sciorina trilli, volatine, duine e quartine di liquida scorrevolezza,
prima d’un Rataplan sommesso, nevrotico, tutto un brivido ritmico che è
traduzione sonora di occhi sbarrati in visioni angosciose di guerra e di
morte. In questa stessa scena, il Melitone-capolavoro di Alessandro
Corbelli: acidulo, stizzoso, millimetricamente calibrato sulla parola e sul
gesto, neppure la più piccola caccola, musicalissimo.
Ferruccio
Furlanetto, a settant’anni, che abbia qualche ruga sulla linea vocale si
capisce: ma è linea ancora ampia e risonante, con più che mai quel senso
della parola (cos’è il suo attacco a “Guai per chi si lascia illudere”!) che
ne hanno fatto interprete verdiano tra i massimi degli ultimi lustri.
Ludovic Tézier ha quella che i loggioni antichi solevano chiamare “una canna
così”: pago di ciò, di tutto il cast è colui che fraseggia con meno varietà,
ma Carlo – personaggio in definitiva monolitico e con poche o punte
sfumature nel suo dissennato orgoglio vendicativo – gli sta a pennello molto
più, poniamo, d’un Simone o d’un Posa. Parti di fianco variabili, dal minimo
oltre la decenza del Marchese della gloria locale Robert Lloyd, al
commovente della Curra ex gloriosa Jenufa di Roberta Alexander, al massimo
oggi ipotizzabile nel campo dei comprimari: un Carlo Bosi che Pappano vuole
nasaleggi sgradevolmente alla giudea come Trabuco, e del quale fa un
personaggio che non si dimentica più. Ma naturalmente, i riflettori della
spasmodica attesa (quella che pare abbia fruttato al mercato nero 4000
sterline a biglietto!!) erano tutti puntati sull’Alvaro di Jonas Kaufmann e
su Anna Netrebko debuttante in Leonora. Formidabili entrambi.
Lui ha
ormai portato al virtuosismo più estremo il metodo-Caballè: spoggia il suono
ottenendo che una voce ampia e brunita s’assottigli in pianissimi
impossibili altrimenti, con effetti del tutto inediti. L’attacco alitato a
mezz’aria di “O tu che in seno”, ovviamente; ma anche frasi come “se tu
com’io non m’ami”, o infinite altre nei tre duetti con Carlo: tutte capaci
di dare tutt’altra profondità psicologica ad Alvaro. Ma là dove deve
esplodere o viaggiare sulle ali di aperture melodiche amplissime che lo
portano a si bemolli e si naturali brucianti: là, l’emissione è
appoggiatissima e granitica, riempiendo la sala d’un suono di bellezza
indimenticabile.
E lei… riascoltiamo la monumentale ampiezza e
bellezza vocale della Tebaldi, innervata dall’accento della Callas. Non una
frase priva di un chiaroscuro, un’inflessione capaci d’illuminare ogni
anfratto della tormentata psiche di questa straordinaria creazione verdiana.
Non una delle innumerevoli e perigliosissime fiondate all’acuto (quel duetto
col Padre Guardiano, dove muoiono tutte!) che non faccia udire suoni fermi,
squillanti, carnosi e intrisi d’una conturbante, appropriatissima sensualità
proprio là dove s’implora la mortificazione della carne. E quelle deliranti
espansioni che si proclamano verdiane in ogni nota: possenti ma impeccabili
legati, morbidezza, uguaglianza in ogni registro “passando” dall’uno
all’altro con la fluidità consentita da tecnica e musicalità d’eccezione.
Incredibile, senza meno, un debutto già di simile livello: da serata
storica, appunto.
Pappano è il grande accompagnatore che ben si
conosce, e ancora una volta se ne apprezzano – perché quanto mai essenziali,
in opera siffatta data ovviamente nella sua assoluta integralità – le doti
di narratore capace di tendere l’arco narrativo privandolo d’ogni punto
morto: gran lavoro di dinamica onde ricchezza di colori di conserva alla
superba capacità di far “cantare” a piena voce l’orchestra pur valorizzando
ognuno dei molteplici gioielli armonici e timbrici di questa straordinaria,
sublime partitura. Che una volta di più dimostra il suo essere l’unico vero
romanzo popolare che l’Italia annoveri accanto al capolavoro manzoniano: e
che pertanto, solo ponendosi da quest’ottica può essere reso come deve.
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