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Musica |
Paolo di Felice |
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Verdi: Otello, Royal Opera House, London, 24. Juni 2017
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L’Otello umano e vulnerabile di Jonas Kaufmann |
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Nell’immaginario collettivo Otello è la personificazione della gelosia: una
specie di hooligan violento e impetuoso che si improvvisa giudice e, sulla
scorta di un processo di raccolta di prove sommario e fortemente
condizionato, giunge a condannare a morte Desdemona, erroneamente creduta
infedele. Ma è proprio così? Otello è davvero soltanto un uomo sconvolto
dalla gelosia al punto da commettere quello che oggi chiameremmo un
femminicidio? In realtà, il personaggio che Verdi e Boito (e prima di loro
Shakespeare) sottopongono alla nostra attenzione è ben altrimenti complesso.
Otello è un esperto condottiero della Serenissima, asceso al più alto rango
in virtù dei suoi meriti militari. È un uomo forte, coraggioso, fiero, ma
anche sensibile e vulnerabile. Rispetto alla sua relazione con Desdemona
avverte come problematiche le differenze di età, status sociale, razza.
Insomma: siamo di fronte ad un personaggio psicologicamente sfaccettato, che
si esprime attraverso un fraseggio vocale vario e sfumato, come si evince
chiaramente sia dalla partitura che dall’epistolario di Verdi. Nulla a che
vedere con l’Otello con la bava alla bocca, sistematicamente energumeno e
roboante, proposto da una prassi esecutiva piuttosto diffusa.
Jonas
Kaufmann si discosta dalla linea interpretativa basata sulla stentoreità e
sul parossismo per offrire, sulla scia di Jon Vickers (che, in parte, è
anche quella di Placido Domingo), un Otello sofferto e contraddittorio, che
alterna slanci d’ira ad angosciosi ripiegamenti interiori e che ben esprime
la vera tragedia di quest’uomo, irretito da Jago a tal punto da essere
trascinato nell’abisso della gelosia e della follia omicida. Nel mettere il
suo timbro denso e virile al servizio di un fraseggio articolato, Kaufmann
incarna un Otello affettuoso e tormentato, decisamente umano e, in quanto
tale, psicologicamente fragile. La recitazione, punto di forza del tenore
bavarese, è parsa però meno dettagliata ed incisiva del solito: segno che
l’approccio interpretativo – di per sé apprezzabile, nella misura in cui
riconduce il personaggio alla sua vera essenza – andrà ulteriormente
affinato. Sul piano puramente vocale, certi pianissimi velati ed in falsetto
continuano a non essere un modello di ortodossia tecnica ed il registro
acuto non ha l’autorevolezza che alcune situazioni richiedono. Il ruolo di
Desdemona si sposa alla perfezione con i mezzi vocali e il temperamento di
Maria Agresta, che gioca qui le sue carte migliori: timbro morbido, legato
esemplare, registro acuto pieno e smagliante, fraseggio eloquente, presenza
scenica espressiva; un’eccellente Desdemona, toccante senza essere
bamboleggiante. La sorpresa viene dallo Jago di Marco Vratogna (subentrato a
Ludovic Tézier, originariamente previsto). Stimolato dal contesto (e,
verosimilmente, marcato stretto da Pappano), Vratogna è uno Jago come
l’avevano pensato Verdi e Boito: piacevole e piacione, gioviale,
all’apparenza di buon carattere e amico di tutti, capace, in forza della sua
abilità dialettica, di adattare il comportamento a seconda della persona con
cui entra in relazione, così da poterla ingannare o dominare più
efficacemente. Se così non fosse, sarebbe arduo spiegare come possa un uomo
dell’esperienza di Otello cadere così facilmente nella sua trappola. Tutto
ciò viene espresso attraverso un fraseggio elaborato, supportato da una
recitazione disinvolta. L’intensità raramente oltrepassa il mezzoforte, in
linea con quanto Verdi ebbe espressamente ad affermare, e cioè che, se fosse
stato un baritono, il ruolo di Jago l’avrebbe cantato quasi interamente a
fior di labbro. Desta forse qualche perplessità la tendenza di Vratogna a
scantonare un po’ troppo spesso in una sorta di parlato: difetto veniale,
tuttavia, considerata l’interpretazione nel suo complesso. Ottimo il coro,
nulla più che discreti i comprimari.
Muovendosi con grande perizia
nell’alternanza di accensioni burrascose e passaggi introspettivi, Antonio
Pappano compone una concertazione ricca di atmosfera e fortemente teatrale,
senza tuttavia mai perdere di vista il sostegno al fraseggio vocale, che
trova anzi nel commento orchestrale una corrispondenza d’intenti come di
rado è dato ascoltare. Alcune scelte di tempi non usuali e qualche peculiare
dettaglio dinamico e strumentale completano il quadro di una direzione
ammirevole.
La concezione registica non convince. Essa si avvale, a
livello scenografico, di una sorta di black box astratta, che è più uno
spazio mentale che non reale; il che non sempre quadra con la recitazione di
stampo naturalistico regolata da Keith Warner. Alcuni messaggi simbolici (le
due maschere impugnate da Jago subito prima dell’inizio dell’opera, così
come l’immagine riflessa nello specchio di Otello, che riproduce quelle
stesse maschere) non paiono inseriti in un disegno interpretativo più ampio
e sono anch’essi in parziale contraddizione con lo stile della recitazione.
Insomma: una messa in scena le cui velleità interpretative si perdono in una
realizzazione sostanzialmente illustrativa.
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