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La Stampa, 31/01/2017 |
Alberto Mattioli |
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Wagner: Lohengrin, Paris, Opera Bastille, 24. Januar 2017
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Kaufmann, risorge il tenore rockstar |
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Dopo i problemi alle corde vocali, torna a Parigi nel “Lohengrin”: ed è subito delirio
Il momento di panico si è avuto prima dell’inizio, quando a luci già spente
è sbucato alla ribalta della Bastille un inviato dell’Opéra. I messaggeri,
all’opera come nella tragedia greca, portano sempre cattive novelle. Tutti
hanno quindi istantaneamente pensato la stessa cosa: «Oddìo, non canta» (e
in subordine: «E io ho preso l’aereo - o il treno, o il giorno di ferie -
per niente»). Invece la notizia, pur cattiva, non è risultata tragica:
semplicemente, Martina Serafin, Elsa von Brabant, era «souffrante», ma
nonostante questo aveva deciso di cantare lo stesso, cosa per la quale il
teatro la ringraziava e e bla bla bla. Sospiro di sollievo collettivo.
Pochi spettacoli d’opera degli ultimi anni erano attesi come questo
«Lohengrin» parigino. Era il sospirato ritorno sulle scene, dopo quattro
mesi, di Jonas Kaufmann, 47 anni, il tenore più celebre del mondo,
l’uomo-che-ha-tutto, voce, talento, fisico, simpatia, doti di attore e
successo forsennato. La sua ultima apparizione risaliva a settembre, al San
Carlo di Napoli, dove cantò (poco e male, riferiscono le cronache) quelle
canzoni napoletane che già non dovrebbero cantare gli italiani non
napoletani, figuriamoci i bavaresi, benché italofili e italofoni. Poi arrivò
la malattia e con una diagnosi pericolosa: ematoma alle corde vocali, che
per qualcuno che con le corde vocali ci lavora non è esattamente
rassicurante. Da allora, per Kaufmann è stato un seguito di cancellazioni:
cancellati «Les Contes d’Hofmann» sempre a Parigi, cancellato il concerto
alla cerimonia dei Nobel, cancellata la partecipazione all’inaugurazione
della nuova sala da concerti di Amburgo...
Finché l’annuncio che dal
18 gennaio Kaufmann avrebbe cantato le cinque recite di «Lohengrin» previste
ha scatenato il finimondo nel mondo dell’opera internazionale. In effetti,
ieri sera, ultima delle cinque, l’atmosfera era quella delle grandi
occasioni. Fuori dal teatro c’erano groupie del bel Jonas scatenate, lunghe
file in biglietteria, gente in arrivo da mezza Europa e anche da più in là e
loschi figuri che ti si avvicinavano chiedendo se volevi un biglietto e,
accessoriamente, se eri disposto a strapagarlo. Dentro, una Bastille piena
fino all’ultimo strapuntino, in un clima di attesa e di scettica fiducia:
sì, le recensioni erano rassicuranti, ma si sa che la critica francese è più
stravagante perfino di quella italiana, e insomma si volevano verificare
live le condizioni dell’Amatissimo...
Bene: l’attesa non è stata
delusa. Oddìo, nel primo atto era percepibile un po’ di cautela e anche una
certa velatura della voce, per esempio nel finale. Sempre magnetica, però,
la presenza scenica, con il duello con il malvagio Telramondo che era un
duellone vero, da film di cappa e spada (e hai voglia, poi, di rimetterti a
cantare, con il fiatone). Nel secondo atto, si sa, il tenore canta poco. Nel
terzo, infine, si è verificato l’atteso miracolo, la resurrezione del più
grande Lohengrin dei nostri giorni (e uno dei più grandi in generale). E
allora si è assaporato un duetto con Elsa di straordinaria varietà di
accenti e un «In fernem Land» tutto in piano, fra l’alitato e
all’allucinato. «In una solenne esaltazione», lo prescrive il libretto: ma
stavolta l’esaltazione era tutta interiorizzata, quasi una seduta
d’autocoscienza sul lettino del dottor Wagner: meraviglioso. A questo punto
ci si chiedeva cosa Kaufmann avrebbe inventato per il finalone: ed ecco
«Mein lieber Schwan!» in pianissimo, e un colore diverso di voce per ogni
«Lebwohl!», addio: impossibile non commuoversi. Purtroppo, o per fortuna,
l’opera è fatta per grandi personalità. Se ci sono, la magia scatta;
altrimenti, è solo noia.
In ogni caso, non è stato un one man show
ma, nel complesso, un ottimo «Lohengrin». Lo spettacolo è quello di Claus
Guth, già presentato alla Scala al Sant’Ambroeus del ’12: di grande bellezza
anche figurativa, e così pieno di riferimenti e di rimandi e di citazioni
psicoanalitici, psicologici, politici, sociali e culturali che forse
potrebbero essere anche un po’ meno, insomma affascinante ma impegnativo.
Bellissima la direzione di Philippe Jordan, che cesella i preludi e ottiene
un suono sempre morbido, aereo, trasparente, leggero, scattante senza
pesantezze e pieno senza clangori. Coro e Orchestra dell’Opéra lo seguono a
meraviglia (un po’ meno, magari, le trombe in scena).
Malata o no,
Serafin è comunque un’Elsa efficiente benché non troppo personale. Un po’
fuori forma René Pape come Re Enrico. Tomasz Konieczny, cui a Vienna fanno
straziare il repertorio italiano, qui invece funziona e risulta un
Telramondo perfettamente aggressivo e violento. A livello Kaufmann la
magnifica, ben nota Ortruda di Evelyn Herlitzius: quando alla fine si
appalesa alla ribalta e lancia sulla platea come missili le sillabe furiose
del suo ultimo scongiuro è semplicemente magnifica. Alla ribalta poi, tutti,
sono stati sommersi di applausi e di fiori. È già Pasqua.
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