La Stampa, 15.6.2015
Alberto Mattioli
 
Konzert, Puccini, Teatro alla Scala, Milano, 14. Juni 2015

Jonas Kaufmann conquista la Scala
 
Il concerto pucciniano salutato da oltre 40 minuti di applausi
 
Quaranta minuti di applausi alla Scala non si sentivano da un pezzo. Poi si può discutere il minutaggio, se siano stati davvero quaranta e se nel calcolo rientrano anche i cinque (cinque!) bis. Però è indiscutibile che il recital di Jonas Kaufmann di domenica sia stata una serata di quelle incandescenti.

E dire che si trattava di un concerto di riparazione. Kaufmann (rapido ripasso: bavarese, 45 anni, bello e bravo, considerato dai più il maggior tenore vivente, molto amato a Milano dopo due notevoli Sant’Ambroeus con “Carmen” e “Lohengrin”) aveva bidonato la Scala per una “Cavalleria rusticana” e per farsi perdonare ha concesso un tutto-Puccini con orchestra, diretta per l’occasione da Jochen Rieder che, per inciso, evidentemente con Puccini non ha un gran feeling, tanto che in più di un’occasione è stato salvato dall’Orchestra della Scala che invece Puccini lo conosce e bene.

Però c’era lui, superJonas. Quanto alle note di colore, il teatro era zeppo delle sue groupie che lo seguono adoranti ovunque come ogni popstar che si rispetti. Da segnalare la pubblica consegna da platea a palcoscenico di fiori e anche di quella che è parsa una bottiglia e, a concerto finalmente finito, anche di una scorta di piadine da parte di un’ammiratrice romagnola. Il tutto fra commenti tipo “E’ più brizzolato” oppure “E’ un po’ ingrassato” dei fedelissimi e soprattutto delle fedelissime che non si perdono una sua recita. Lui, piacionissimo, ci marcia, si toglie il cravattino dello smoking (ebbene sì, con panciotto nero – sfina -, e tanti saluti al frac che pure sarebbe d’ordinanza) per bissare “Nessun dorma!” e poi si dimentica le parole, che fa tanta tenerezza. Dal suo palco, il sovrintendente Alexander Pereira canta in playback tutto il concerto (insomma, segue con il labiale il canto di Kaufmann) e si frega le mani pensando all’incasso, anche se poi fino all’ultimo il teatro non era pieno e lo si è riempito con sconti last minute. Colpa, pare, dei prezzi altissimi. In sintesi, comunque, festa grande.

Venendo alle note e basta, bisogna subito precisare che Kaufmann non è il classico tenore italiano né nel timbro, scurissimo, baritonale (i detrattori dicono ingolato, e un po’ in effetti lo è) né nella tecnica, che non è affatto quella belcantistica tradizionale e che a sua volta, a differenza di quel che molti pensano, non è affatto l’unica tecnica vocale possibile. Acuti bellissimi, facili almeno fino al si naturale (il finale del terz’atto di “Manon Lescaut”, trasformato in uno strambo assolo tenorile, non permette di barare), mezzevoci suggestive ma non “sul fiato”, italiano perfetto. E’ un grande tenore, ma non ortodosso.

Il punto è che per Kaufmann il canto non è un fine, ma un mezzo. E l’obiettivo è fare teatro. Per questo forse uno spezzatino di arie come quello milanese non è il modo migliore di apprezzarlo: mancano la presenza scenica, notevolissima, e la costruzione del personaggio, che poi se il personaggio è pucciniano viene messo a fuoco più nel canto di conversazione che nelle romanze. Però è sbalorditiva la capacità di ri-creare il momento scenico anche soltanto nella manciata di minuti di un’aria. E non meno rivoluzionaria la capacità, che di solito manca ai cantanti in generale e a quelli italiani in particolare, di distinguere fra Puccini e il puccinismo, fra un grande uomo di teatro pienamente novecentesco e la sua versione ridotta alla commozione prêt-à-pleurer. Certe figure mille volte viste e ascoltate (pensate a Cavaradossi, o a Des Grieux) smettono di essere stereotipate, o almeno prevedibili, per diventare teatralmente “vere”, addirittura nuove.

In questo senso, l’idea di mettere il programma in ordine cronologico, dalle “Villi” a “Turandot” (passando perfino per il famigerato “Edgar”, “E Dio ti GuARdi da quest’opera”, come diceva il sor Giacomo, e dire che l’aveva scritto lui…) permette davvero di seguire l’evoluzione non tanto musicale quanto drammaturgica di Puccini. Il quale viene rivoltato come un calzino, come se adesso toccasse a un cantante compiere quell’operazione di svelamento del vero Puccini dietro il puccinismo che i grandi direttori d’orchestra hanno fatto da tempo e i registi stanno iniziando a fare. E’ grazie ad artisti come Kaufmann, tenore “globale”, che l’opera smette di essere un museo di vecchie care cose per diventare qualcosa di estremamente attuale e contemporaneo, bruciante di verità. E non è davvero poco.

PS: si diceva dei cinque bis. Uno ha lasciato perplesso molti, forse perché era l’unico non-Puccini di tutta la serata. Per chi non l’avesse individuato, si tratta dell’aria “Ombra di nube” dalla “Cecilia” del dimenticatissimo Licinio Refice. Eseguita tutta in pianissimo, è stata uno dei momenti più alti del concerto.



















 
 
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