L'Opera, settembre 2013
di Nicola Salmoiraghi
 
Verdi: Don Carlo, Salzburg, August 2013

Don Carlo, Salzburg
 
Il Trovatore è opera affascinante, ambigua, sfuggente, dalla drammaturgia sghemba quanto intrigante. Come la prendi, ti scappa da tutte le parti. Non è facile portarla in scena cercando
di proporre qualcosa di «nuovo». Ben lo sanno i registi che si sono cimentati con essa. Non fa differenza Olivier Py, autore della nuova messinscena che ha debuttato per il Münchner Opernfestspiele della Bayerische Staatsoper sul palcoscenico del Nationaltheater.

Py, intelligentissimo e altrettanto interessante «dinamitardo» della regia d'opera contemporanea, con la collaborazione dello scenografo e costumista Pierre-André Weitze e del direttore luci Bertrand Killy, ha creato uno spettacolo visivamente indubbiamente coinvolgente e curatissimo, nella sua tinta «dark» e cupa, adattissima al clima in fondo gotico della vicenda e con le soluzioni multipiano-girevoli che tanto piacciono a Py; ci troviamo in un'epoca senza tempo, genericamente contemporanea, in un mondo post-industriale, fatto di ingranaggi, costruzioni di lamiera, incenerito, dove anche gli alberi sono grigi e scheletrici.

C'è un'idea motto buona che accompagna lo svolgimento dello spettacolo: è quasi costantemente in scena una donna anziana, lacera, scarmigliata, spesso nuda, che altri non è che la madre di Azucena, la zingara bruciata in origine, motore della vendetta. La vediamo, durante il racconto di Azucena nel secondo atto, vessata dagli sgherri, legata ad un tronco che prende fuoco. E nella medesima scena vediamo anche la giovane Azucena impegnata nel fatale scambio di neonati, realistiche sagome sfigurate dalle fiamme. Al termine, al momento del «Sei vendicata o madre» in scena ci sono Azucena, lo spettro della madre, e sullo sfondo la giovane Azucena che culla ipnoticamente il bimbo; tre generazioni, di cui una «sdoppiata», testimoni del dramma da loro stesso innescato. Questo è molto realistico e intensamente drammatico. Come del resto lo è - sicuramente molto «forte» - l'uso simbolico della croce (quindi della religione cattolica e dei suoi atti feroci, innegabili in passato...) che il Conte di Luna spezza con disprezzo esprimendo la sua intenzione di strappare Leonora alla monacazione e che, incendiandosi alle spalle di Manrico, non è altro che la «Pira» su cui verrà immolata la presunta madre. Può forse disturbare - non chi scrive... - ma è «teatro» di indiscutibile impatto.

A queste idee, che hanno un senso, se ne sono aggiunte molte altre, magari suggestive in origine, ma affastellate senza senso, di modo che il risultato finale è assai confuso e non convincente. Ad esempio: Leonora è cieca. Bene, può essere. Anzi rende più plausibile il fatto che nel primo atto la donna scambi il Conte di Luna per Manrico. E poi? La cosa muore lì e nel corso dell'opera ogni tanto sia la protagonista che il regista si dimenticano di questa situazione, che sembra più che altro una trovata tanto per aggiungere qualcosa. Così come il suo trasporto erotico durante «Tacea la notte placida», mentre immagina Manrico mascherato che la tocca, l'abbraccia, la carezza intimamente. Dopodiché? Nulla, Leonora torna la casta Susanna di sempre, o perlomeno di come è sempre rappresentata, pur non essendolo, avendo tra le pagine più «carnali» che Verdi abbia scritto per voce di soprano.

Se la zingara anziana e raggrinzita che si aggira nuda ha un suo senso, la «zingarella» che si spoglia nuda e si struscia con mosse da lap-dance addosso ad un «gitano» durante il celebre Coro, fa tanto varietà di terza categoria. Non aggiunge e non crea nulla.

Manrico, durante il secondo atto, pare infastidito dalle soffocanti attenzioni e richieste della «madre», che pare legato a lui da un'attrazione quasi «incestuosa», baciandolo sulla bocca. Può essere interessante. Approfondiamo. E invece tutto si ferma lì, appiccicato come una superflua carta -da parati sul muro.

Gli-esempi sarebbero molti altri, ma ci limitiamo agli eccessi dei siparietti ad «opera ferma». Al termine della prima parte (primi due atti unit) la vecchia zingara seminuda si mette a battere furiosamente con i pugni, mentre il pubblico defluisce, sul sipario traslucido che chiude la scena, portata via da un «armigero». Passi. Prima dell'inizio della seconda parte, mentre gli spettatori rientrano in sala, ecco Azcena in cappello a cilindro e Manrico apparire alla ribalta, inchinarsi e dare il via ad un numero di illusionismo: il Trovatore segato in due dentro una cassa. dalla madre, busto da una parte, gambe dell'altra. Poi la ricomposizione, lui si alza, si massaggia la pancia, nuovo inchino tra la perplessità, le risate e gli applausi degli astanti, e via, che si ricomincia con l'opera... francamente, una sesquipedale stupidaggine. Peccato, perché Py è bravo e una regia c'è. Che pecca però di totale mancanza di misura e, peggio, coerenza drammatica.

Sul podio della Bayerisches Staatsorchester, Paolo Carignani, a nostro avviso, si è limitato a fare consolidata routine, tra scoppi di sonorità sin troppo caricate e una totale uniformità d colori, intenzioni, dinamiche. Inoltre («Pira» a parte, eseguita correttamente), nel 2013, suo anno bicentenario oltretutto, ci piacerebbe ascoltare un Verdi con i raddoppi delle cabaletta
Non è un optional, è un dovere stilistico-musicale.

Nel ruolo di Manrico debuttava, tra grandi attese, il «tenorissimo» Jonas Kaufmann e occorre dire che le aspettative non sono andate deluse. Come è noto Kaufmann ha timbro del tutto peculiare, scuro, da colori e dalle risonanze talvolta quasi baritonali, che a tutta prima potrebbe apparire non l'ideale per il personaggio del Trovatore. E invece ci siamo trovati di fronte ad una prova superba. In primo luogo va sottolineata la profonda statura d'artista di Kaufmann, capace di miniare il fraseggio e le sfumature della frase musicale con un'infinita varietà di intenzioni ed un'espressività densa ed accesa. La voce, frutto di un lavoro e di una tecnica del tutto particolari, ma per lui ideali, è sempre perfettamente proiettata con acuti bronzei e folgoranti. «Amor...sublime amore... Ah sì ben mio» è stato un capolavoro di cesello interpretativo, tra slanci romantici e il prezioso ricamo della mezzavoce, con persino l'abbellimento dei trilli. La «Pira» è stata espugnata con tenorile baldanza, con timbrata puntatura sul «teco» della ripresa. Un po' più corta e schiacciata, invece, quella sull'«All'armi» conclusivo. Proprio a voler trovare la pagliuzza in una prova maiuscola.

Altrettanto brava, la sfolgorante Anja Harteros-Leonora, in forma vocale strepitosa. Anche nel suo caso assolutamente coinvolgente l'intensità espressiva dell'interprete, di grande presa drammatica ed emotiva. La voce è risultata sicurissima in ogni registro, tanto nell'acuto risoluto e lucente che nel grave solido senza essere forzato, con un gioco di pianissimi prezioso e raffinato. «D'amor sull'ali rosee» è stato un vero e proprio gioiello vocale. Anche nel suo caso, un acuto un po' aspro in chiusura della cabaletta «Tu vedrai che amore in terra» non ha guastato un'interpretazione complessivamente di grande levatura artistica.

Alexey Markov ci aveva convinti di più quando lo abbiamo ascoltato lo scorso settembre nel Roberto Devereux a Zurigo. La voce del baritono è sempre bella, ampia e importante, intendiamoci, di grande autorevolezza. Ma come Conte di Luna ci è parso qua e là in affanno sugli acuti, con qualche emissione di suono non precisamente ortodossa. «Il balen del suo sorriso» è stata però cantata bene, risultando il momento migliore di Markov nella serata.

Decisamente mediocre l'Azucena di Elena Manistina, scomposta e scollata tra i registri, con un grave sgranato e un acuto urlato, interprete generica quando non dozzinale. Sorprende che una voce che produce nel corso della serata suoni di tal fatta, riesca poi a restituire, nel finale, una scena del carcere tutto sommato attendibile.

Ferrando (a cui Py riserva il compito di giustiziare a tradimento Manrico nel finale pugnalandolo alle spalle) era Kwangchul Youn, voce di basso sempre affidabile e risonante.

Ben cantato - rara avis - il Ruiz di Francesco Petrozzi. Completavano la locandina Golda Schultz (Ines), Rafal Pawnuk (Uno zingaro) e Joshua Stewart (Un messo). Bene il Coro della Bayerische, preparato da Sòren Eckhoff. Successo caloroso e prolungato, con i toni del trionfo per Kaufmann e Harteros.


















 
 
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