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Opera Disc, 23 Ottobre, 2013
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Pietro Bagnoli |
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Liederabend, Teatro alla Scala, Milano, 21. Oktober 2013
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Backstage: Jonas Kaufmann in concerto alla Scala |
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Ieri sera, in un palco laterale del 1° ordine di sinistra, prima che
iniziasse il Rito, ho alzato il naso verso la seconda galleria; il teatro
era strapieno, molto più di quello che ci si aspetterebbe per un concerto di
canto (tanto più se farcito di Lieder come questo di cui parliamo), ma
lassù, in quella zona calda che paragoniamo alla curva degli stadi,
mancavano le sagome famigliari di chi passa il proprio tempo a sputare
controvento. Tutto perduto, quindi? Niente divertimento? Ma no, dai,
tranquilli! Alla fine, quando tutto il teatro è letteralmente impazzito
per l’entusiasmo per il carismatico affabulatore che ha portato a termine
non solo il suo compito, ma anche 5 bis, ecco che nel tripudio collettivo,
nell’ovazione che nemmeno San Siro quando segna Balotelli, si riesce a
distinguere un isolato “Buuu!”: uno solo. Il nostro divertente contestatore
si era finalmente svegliato dal suo letargo e si è ricordato la ragione per
cui era lì, il compito istituzionale cui si sente preposto, riuscendo a
rendersi ridicolo e ad abbassare - sia pure di poco - il livello culturale
del pubblico della nostra città. A parte questa nota coreografica che
alla Scala non manca mai (tanto per stare su livelli paragonabili, pensiamo
ai fischi ricevuti da Callas o a Karajan), il concerto è stato un autentico
trionfo, uno di quelli che ti costringono a riconsiderare le tue idee sui
preconcetti fissi e immutabili che albergano in ognuno di noi e che – a
regola – non prevedrebbero che un concerto fatto di Lieder di quattro autori
diversi possa, in Italia (non alla Shubertiade di Schwarzenberg!),
riscuotere un successo apocalittico.
E invece è andata così,
esattamente come ve la raccontiamo noi: un trionfo. In una sala gremita
come la si vede solo quando vi danno eventi nazional-popolari tipo
“Traviata” o “Tosca”, con una tensione fremente quasi palpabile, si è
presentato Kaufmann accompagnato dal solito Helmut Deutsch, il cuicontributo
è risultato determinante ai fini del risultato finale. Dopo
un’introduzione forse non particolarmente illuminante con quattro Lieder di
Strauss, Kaufmann si è letteralmente scatenato nel ciclo di Schumann,
illuminato da tutte le seduzioni che lo hanno reso non solo famoso ma – di
fatto – il tenore più importante del mondo non solo di questo momento. I
brani sono trascolorati l’uno nell’altro con una liquidità leggerissima, una
comprensione quasi sovrumana della parola, l’uso sapiente della mezzavoce,
il tono introverso di “Ich will meine Seele tauchen” che si alternava a
quello scoppiettante e sbarazzino di “Die Rose, die Lilie, die Taube”, e
così via. Esistono alcune versioni celeberrime di questo meraviglioso
ciclo, ma in nessuno – nemmeno in Fischer-Dieskau o Wunderlich – ho mai
percepito una tale diversificazione di ogni singolo Lied; forse l’unico che
ci va abbastanza vicino è Christian Gerhaher, probabilmente il più
importante baritono colorista dei nostri tempi. Continuano a lasciarmi
freddino i Wesendonck Lieder per voce maschile, che il tenore aveva già
proposto nel bellissimo disco dedicato a Wagner; Kaufmann ne dà comunque una
lettura commossa e partecipe, soprattutto “Im Treibhaus” e “Träume”, in cui
l’accompagnamento di Deutsch diventa poetico e respira letteralmente con il
cantante, lasciando intravedere in filigrana una potenzialità importante per
Tristan. Più problematici i componimenti di Strauss, che vedono Kaufmann
come sempre padrone della dialettica ma lievemente meno a proprio agio con
una tessitura complessivamente più alta. Niente di indecoroso, ovviamente:
l’intonazione è perfetta e la parola è accarezzata e tornita, ma gli acuti
non sono sfolgoranti. Questo è un problema con cui il Kaufmann liederista
può convivere tranquillamente, ma che il Kaufmann operista non può
oggettivamente ignorare.
E qui – come diceva il nostro Francesco
Brigo (alla cui generosità debbo lapartecipazione a questo evento epocale) –
finisce il primo concerto, e ne inizia un secondo. Dopo i primi due
splendidi bis ancora di area liederistica, Kaufmann non resiste alla
tentazione di fare il piacione e accontenta quella parte di pubblico che
presume non essersi accontentato della performance stratosferica esibita
sino a poco prima. Ecco quindi, nell’ordine, un “Ingemisco” molto
sofferto e faticoso, riscattato solo in parte da un tono sommesso e macerato
da vero penitente, che conferma quello che dicevo poco sopra; un “La vita è
inferno all’infelice”, la cui presenza è giustificata dalla contemporanea
promozione del disco di arie verdiane e dal prossimo debutto nel ruolo, che
viene risolto con fatica solo lievemente inferiore ma con un tono allucinato
che ancora non avevamo mai sentito; la parte dell’aria propriamente detta è
invece respirata con una serie di messe di voci e di smorzature che rendono
perfettamente l’idea del soliloquio (in queste cose Kaufmann è non solo
magico, ma probabilmente il migliore di sempre). E infine, il tenore si
strappa letteralmente i peli dal torace con un ruffianissimo “Dein ist mein
ganzes Herz”, con il pubblico – soprattutto femminile, ma non solo –
assiepato intorno al palcoscenico. Mi avete criticato a Giugno? Io vi amo
lo stesso! Il mio cuore è solo per voi! Mi sono dovuto stropicciare gli
occhi: se avesse cantato (bissandola) la “Vendetta” del Rigoletto avrei
creduto di trovarmi di fronte a Leo Nucci o, peggio, a Domingo. Era una di
quelle situazioni in cui lo spettatore ha la sensazione che l’Artista sia lì
solo ed esclusivamente per lui.
Noi di Operadisc siamo piuttosto
contrari a questa deriva nazional-popolare che abbassa discretamente la
qualità di un recital fra i più geniali, straordinari e carismatici della
storia della Scala. Vi siamo contrari per due motivi. Il primo è che
questi brani non c’entrano nulla con la temperie culturale descritta
dalnucleo pulsante del concerto. Si può discutere su una scelta di tipo
liederistico per un concerto alla Scala, ma quando è fatta con questa
appropriatezza e con questa eloquenza, si deve andare avanti sino alla fine,
evitando cross-over che – alla fine – non servono a nessuno. Ricordo
concerti di canto negli Anni Ottanta in cui il pubblico si annoiava a morte
con la lagna dei lieder aspettando il cantante al varco dei bis operistici:
una bella Habanera, per esempio. Olè. E tanti saluti al repertorio
raffinato. Il secondo è che in questa fase della sua carriera Kaufmann
può cantare veramente quello che vuole senza preoccuparsi a tutti i patti di
incontrare i gusti del pubblico che anzi, come si è visto ieri sera, da lui
accetta qualunque cosa; ovviamente i due-tre contestatori, che sono lì
perché non possono farne a meno (avete presente quelli che si mettono in
macchina sperando di vedere un incidente stradale?...), non fanno che
aumentare l’impatto del successo di Kaufmann. Ma, soprattutto, ci preme
sottolineare quanto sia importante che un cantante così sui generis, con
un’emissione così particolare, con un’ebbrezza virtuosistica del declamato e
con un senso della parola e dei colori che non ha – ripeto – riscontri di
altro genere al mondo, un cantante del genere – dicevo – non possa puntare a
una massificazione del proprio repertorio. Eppure, a giudicare dal
successo da stadio, ha ragione lui! Il pubblico era letteralmente
impazzito, come non lo vedevo da un po’ di tempo; o meglio, come – da un po’
di tempo a questa parte – succede solo con lui. Era successo anche con il
Lohengrin dell’inaugurazione. Oggi, questo è il più grande tenore del
mondo, quello che ci ha aperto orizzonti che nemmeno immaginavamo in molti
degli ambiti che ha toccato. Non in tutti.
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