L'Opera, settembre 2013
di Nicola Salmoiraghi
 
Verdi: Don Carlo, Salzburg, August 2013

Don Carlo, Salzburg
 
Uno degli appuntamenti più attesi del Festival di Salisburgo di quest'anno era Don Carlo, con la presenza sul podio di Antonio Pappano.

E proprio la concertazione di Pappano, alla guida dei Wiener Philharmoniker, è stato uno dei punti di forza di questa produzione, «quasi» riuscita sotto tutti gli aspetti (più avanti spiegheremo i motivi del «quasi»). Pappano ha optato per le versione italiana in cinque atti del capolavoro verdiano (c'è ancora chi esegue Don Carlo in quattro atti? Vergogna!) con in più la scena dello scambio dei mantelli tra Elisabetta ed Eboli (finalmente si capisce il motivo per cui Eboli arrivi all'appuntamento con Don Carlo) e il compianto di Filippo sul corpo di Rodrigo, il cosiddetto «Lacrimosa» che troverà ospitalità nel Requiem.

Un suono fulgente, magnetico, di cupo e tragico splendore, quello ottenuto da Pappano con i Wiener, una concertazione di sofficissima forza espressiva, di estrema teatralità, che racconta l'opera verdiana con fluida naturalezza e affiato ardente, sottolineandone colori, accensioni, ombrose sfumature. Pappano si conferma uno dei due più grandi direttori d'opera al mondo della sua generazione. Del secondo parleremo più avanti...

Ma affascinante era anche io spettacolo ideato da Peter Stein (regia), Ferdinand Wögerbauer (scene, essenziali ed efficaci), Annamaria Heinreich (costumi, motto belli), Joachim Barth (luci, di notevole espressività e pregnanza drammatica). Certo, tradizione, ma tradizione intelligente, molto curata nella recitazione e nei rapporti tra i personaggi. Ad esempio non ci è mai capitato di vedere un rapporto così «fisico» e passionale tra Cario ed Elisabetta, molto ben gestito da Stein e dagli interpreti.

Interessantissima e intelligente poi la scena divisa in due, di cui si vede di volta in volta solo metà, che dallo studio di Filippo Il porta al carcere. Un ambiente angusto, claustrofobico, squallido, sulla destra la stanza di Filippo, la vera prigione in cui è ingabbiato dal potere e dalla solitudine, mentre immensa le cella che appare sulla sinistra, con una luce che arriva dall'alto, perché comunque, lì si respira aria di ideali, di libertà.

Di grandiosa asciuttezza dell'Autodafé, compreso il rogo finale, proiettato sullo sfondo. Un paio di cadute di gusto la scena dei giardini della Regina, che pare un po' il labirinto di un luna-park e il «rapimento» finale di Don Carlo da parte di Carlo V che, se realizzato in maniera naturalistica, come in questo caso, non manca mai di essere un po' ridicolo...

Nel cast, meritato trionfo per Jonas Kaufmann e Anja Harteros, strepitosi. Kaufmann, interprete superlativo sulla scena, ha cantato realmente da padreterno, forte del suo particolare timbro brunito, dalle screziature eroiche e sensuali. Un registro acuto intemerato e potentissimo, proiettato con assoluta sicurezza, mezzevoci paradisiache (il duetto finale con la Harteros, tutto in pianissimo da parte di entrambi, è stato da brivido), un fraseggio bruciante e appassionato, un accento scolpito e vibrante. Anche in questo caso si rassegnino gli altri pur bravissimi colleghi; ci troviamo di fronte, considerata la totalità dei mezzi, al più grande tenore del mondo, oggi.

Anja Harteros, dopo la splendida Leonora nel Trovatore a Monaco, si conferma soprano di altissimo livello e caratura artistica superiore. Palpitante e vivida nelle resa espressiva, dotata di un colore e di una pasta di tersa bellezza, ma con un medium e un grave risoluti e suggestivi, Anja Harteros ha cantato splendidamente Elisabetta, con un «Tu che le vanità» da antologia.

Thomas Hampson (Rodrigo) non possiederà certo il legato, il colore e l'emissione che si immaginano per questo repertorio, ma l'artista è notevolissimo e l'interprete sempre profondamente espressivo ed intelligente. E, a onor del vero, la grande scena della morte è stata cantata sui fiato, molto bene, con accento risoluto, fremente e accorato.

Ekaterina Semenchuk (Eboli) ha potente e incisiva voce mezzosopranile, di calda efficacia e notevolissimo vigore, Le agilità del «Velo» sono forse risultate un po' pesanti, come spesso capita, ma sia nel terzetto che nel rapinoso «O Don fatale» si è fatta valere con impeto e grinta vocali di prima classe.

E ora veniamo ai dolenti motivi per cui questo Don Carlo può dirsi «quasi» riuscito. II primo è l'improponibile Filippo Il del veterano Matti Salminen, che ha letteralmente rovinato ogni scena in cui è apparso. Una voce rotta in tre tronconi, malferma e quasi sempre fuori tempo e fuori intonazione. Erano tali e tanti i problemi vocali che non poteva nemmeno dirsi che scenicamente il personaggio convincesse, perché crediamo che il cantante non avesse la concentrazione necessaria per costruire il ruolo. Ci si domanda perché sia stato lasciato andare in scena in queste condizioni.

Eric Halfvarson (Grande Inquisitore) ha sicuramente voce di volume sensazionale, dall'autentico colore di basso profondo, ma è emessa un po selvaggiamente e in più non si capisce una sola parola di quello che canta.

Pensate cosa può essere stato lo splendido e terribile confronto trai due nel quarto atto, uno dei punti nodali dell'opera... Robert Lloyd (Un Frate/Carlo v) è stato un basso di notevole valore, e di quel valore, oggi, purtroppo, restano solo le vestigia. Ecco quindi, i motivi del «quasi», Peccato, perché il resto della compagnia era di notevole valore, Sen Guo (Una Voce dai cielo), Maria Celeng (Tebaldo), Benjamin Bernheim, molto bravo (Conte di Lerma/Araldo), Antonio Di Matteo, Peter Kellner, Domen Krizaj, Roberto Lorenzi, Iurii Samoilov, Christoph Seidl (Deputati fiamminghi), Oleg Savran (Un boscaiolo), e la prova del Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor ha mantenuto la produzione ad un rimarchevole livello.


















 
 
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