Il manifesto, 2012.12.09
Fabio Vittorini
 
Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012

«Lohengrin», tutta l'energia e le sfumature di Wagner
 
Meno unanime l'apprezzamento per l'allestimento «psicodrammatico» di Guth, che ha spostato l'azione dal X secolo del libretto ai tempi in cui l'opera fu composta, metà Ottocento
 
Apertura della stagione con presunto enigma, venerdì sera alla Scala. Il direttore Daniel Barenboim è entrato precipitoso nel golfo mistico e senza indugi, dopo avere raccolto l'applauso di rito, ha brandito la bacchetta per permettere al preludio del Lohengrin di Wagner di deflagrare. Nessuna cornice dunque, come fosse una prima qualsiasi. Ma alla fine dell'opera, forse per rimediare a una dimenticanza che rischiava di diventare una clamorosa gaffe, o forse per un astuto e premeditato colpo di teatro, ha aspettato che il primo round di applausi per i cantanti scemasse per attaccare con l' Inno di Mameli: il sipario si è riaperto scoprendo il Coro al completo e il cast, tutto di stranieri eppure tutti impegnati a (provare a) intonare le note sempre toccanti di «Fratelli d'Italia». Un esempio elettrizzante di unità nel segno della musica al di là delle polemiche stantie Verdi vs Wagner per iniziare la stagione che coincide col doppio centenario delle loro nascite. Poi di nuovo applausi, lanci di fiori, ovazioni per tutto il cast, per il direttore, per il coro, con qualche bu indirizzato al regista Claus Guth e ai suoi collaboratori. Tra i più osannati: il tenore Jonas Kaufmann (Lohengrin), splendido tenore eroico dalla voce timbrata, omogenea, pastosa sia nel grave che nell'acuto, meravigliosamente sfogata, un fraseggio impeccabile nell'alternare piani e forti in linea col dramma e le sue sfumature emotive; la mezzosoprano Evelyn Herlitzius (Ortrud), dalla voce possente, estesa e ricca di armonici, sempre salda negli impervi passaggi di registro e a fuoco nell'interpretazione di un personaggio ambiguo; il basso René Pape (Heinrich), granitico, regale, ineccepibile; la soprano Annette Dasch (Elsa), che con grande professionalità e sprezzo del pericolo ha accettato di sostituire il giorno stesso del debutto le due prime donne Anja Harteros e Ann Petersen, entrambe costrette a dare forfait perché colpite da una brutta influenza, disimpegnandosi con disinvoltura e talento di attrice, a dispetto di una voce corretta e dolce ma un po' piccola. Bene anche il basso Zeljco Lucic (l'Araldo). Gracchiante e a tratti stonato il baritono Tómas Tómasson (Friedrich). Unanime il plauso anche per la direzione di Barenboim, wagneriano di esperienza trentennale, che dalla partitura di Lohengrin trae intelligentemente ogni sfumatura di energia e sottigliezza, tenendo in perfetto equilibrio la sua radice tradizionalmente romantica (di opera divisa in numeri arie, duetti, concertati) e la sua vocazione di dramma musicale continuo: i due preludi e le numerose oasi strumentali suonano magnificamente screziate, il lirismo e il dramma si inseguono e si avvolgono a vicenda, aprendosi generosamente l'uno all'altro. Meno unanime l'apprezzamento dell'allestimento di Guth, che ha spostato l'azione dal X secolo del libretto ai tempi in cui l'opera fu composta, metà Ottocento, ideando con lo scenografo Christian Schmidt uno spazio chiuso, una sorta di Corte-cortile, in cui tre ordini di ballatoi pieni di porte ricordano senza precisione mimetica una residenza per operai agli albori della rivoluzione industriale o il retro di un palazzo borghese (borghesi sono anche i pochi arredi: un lampadario, un pianoforte, un tavolo): lo scopo è evidentemente quello di produrre uno straniamento che tolga incanto e viscosità alla favola e al mito e allo stesso tempo quello di creare uno spazio claustrofobico in cui in scena, più che un dramma, si svolga un vero e proprio psicodramma. In questa cornice il personaggio di Lohengrin non ha niente a che vedere con il cavaliere aitante e ardito del libretto, che arriva con la corazza argentea su una navicella trascinata da un cigno: è piuttosto un giovane tremante, che entra in scena senza cigno (ne vediamo giusto alcune piume cadere dall'alto), in posizione fetale, un antieroe nevrotico e fragile che si getta a terra con frequenza impressionante, bisognoso di essere salvato dal suo ruolo che lo condanna a non poter essere conosciuto per quello che è, piuttosto che pronto a salvare Elsa e gli abitanti del Brabante. Lo stesso si dica di Elsa: persa l'innocenza originaria in un gorgo di sensi di colpa per la morte del fratello, sembra una delle isteriche tardo-ottocentesche studiate da Charcot (e tanto amate dal melodramma italiano di inizio Ottocento: si pensi alle varie Lucia, Linda, Elvira e alle loro più o meno temporanee insanie), visionaria (onnipresenti sono i «doppi» bambini di lei e dell'alato fratello), anche lei sempre sul punto di svenire e spesso a terra, fino al momento finale in cui, divorata dai suoi demoni, si lascia annegare nel fiume alla partenza di Lohengrin, come Ofelia. Il problema è che gli allestimenti di Guth, per essere capiti, hanno bisogno delle note di regia, rivelandosi sempre un po' più cervellotici che colti.





 














 
 
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