L'opera, 6/2010
Puccini: Tosca, Metropolitan Opera, April 2010
Tosca

La controversa produzione di Tosca di Luc Bondy che apriva la stagione l'autunno scorso e sostituiva quella di Zeffirelli è stata ripresa a metà aprile con un cast differente. James Levine e Karita Mattila, che dovevano partecipare in questa ripresa, hanno dovuto cancellare per indisposizione e venivano sostituiti da Fabio Luisi e Patricia Racette. Il maestro Luisi arrivava a New York all'ultimo momento e, considerando che saliva sul podio quasi senza prove, se l'è cavata abbastanza bene. II problema che non risolvesse tutto adeguata mente era sicuramente dovuto ai tempi che sceglieva, perché sembrava che non ci fosse un perfetto coordinamento tra orchestra e regia; a volte pareva che i cantan ti rimanessero immobili senza sapere che fare aspettando il momento giusto per continuare: quando Angelotti decideva d'indossare le vesti femminili; quando Cavaradossi arrivava a Palazzo Farnese; dopo la confessione di Tosca e durante il duetto dell'ultimo atto.

Sbagliato o no, io son del parere che il concetto registico originale dovrebbe sempre essere rispettato, altrimenti la regia si altera. Per quanto spiacevole sia, quella di Bondy, con tutte le esagerazioni sulla lussuria, la venalità e il sadismo del barone Scarpia, si svigorisce quando
si addolcisce la sua brutalità. Già in questa prima ripresa, dopo solo sei mesi, si eliminava qualche dettaglio. Ad esempio, Scarpia non baciava più la Madonna alla fine del Te Deum e le prostitute facevano il loro («lavoro» in modo molto meno esplicito. Seguiranno sicuramente altri dettagli prima della sostituzione totale di questa produ-zione: l'irriverenza dei Sagrestano, la mancanza di scrivania nell'ufficio di Scarpia, la cui povera cena era servita in un semplice vassoio; il comportamento di Tosca, che si sdraiava pensando tranquillamente sul divano dopo avere ucciso il Barone e dopo avere contemplato il proprio suicidio.

Patricia Racette, conmeno risorse vocali e teatrali della Mattila, dimostrava ancora una volta di essere una cantante molto competente che continua a esplorare parti e stili diversi con
molta serietà. Il problema era che la voce stessa, un lirico puro di timbro piacevole ma impersonale e di costituzione poco corposa, non le permetteva di adire» con intenzione giusta. Ci aspettavamo di più nel «Vissi d'arte», cantato con insufficiente espressività e ci aspettavamo di meno nel Do della (dama», emesso invece brillantemente.

La serata apparteneva (e come!) ai due maschi, il tenore Jonas Kaufmann e il baritono Bryn Terfel. Quando si sentono cantanti di livello superiore come questi, la bruttezza dello spettacolo viene anche perdonata.

Kaufmann è senza dubbio il tenore del momento. Il suo Cavaradossi era niente meno che ideale, sia per il «physique du rôle» che per il suo atteggiamento e per il suo strumento vocale che non solo è di attraente timbro ma che sembra sempre sotto perfetto controllo. La voce duttile e flessibile gli permetteva di alternare accenti decisi (forte) e dolci (piano) passando dell'uno all'altro in forma impercettibile senza rompere la linea di canto. L'acuto era sicuro, le sfumature ammirevoli, la mezzavoce e il piano perfettamente udibili e di grande bellezza. L'ovazione dopo le due arie, cantate con molto sentimento, era lunga e strepitosa.

Lo Scarpia di Terfel non era meno lodevole. Il cantante sembrava godere interpretando il bigotto satiro Barone, che non gli offriva nessun problema vocale né di volume (ne aveva fin troppo) né di tessitura in una parte che sta ben dentro il suo registro. Nel «Te Deum», cosa rara, la voce di Terfel si sentiva distintamente e man mano che passava il secondo atto l'espressività, le inflessioni giuste nel testo cantato e il recitare lo rendevano visibilmente sempre più violento e odioso. La sua morte sembrava meritata e benvenuta. Anche lui si meritava l'ovazione finale.






 
 
  www.jkaufmann.info back top