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Il Giornale, 29/11/2012 |
Piera Anna Franini |
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"Il mio eroico Lohengrin narciso e un po' depresso" |
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Il tenore parla della Prima alla Scala: "È l'opera di Wagner più
italiana In scena senza il cigno? Scelta moderna, il gusto del pubblico è
cambiato"
È lui il gran divo di Lohengrin di Richard Wagner,
l'opera che il 7 dicembre apre la stagione della Scala di Milano. Si chiama
Jonas Kaufmann, il tenorissimo di ultima generazione: 43 anni, di Monaco,
intelligente, colto, bello, sportivo, tutto teatro-casa-moglie-figli.
Pare una favola. L'artista viene a Milano forte di altre due prime
scaligere. Lo si vide quando ancora non era Kaufmann, per carità in una
particina, nel Fidelio del 7 dicembre 1999, ma passò inosservato. A
consacrarlo a Milano era il suo Don José nella Carmen del Sant'Ambrogio
2009. Ora vestirà i panni del figlio di Parsifal, il re del Santo Graal.
Sarà il cavaliere senza macchia che scende sulla terra in soccorso di una
donna in pericolo, Elsa. Sconfigge cattivoni in duello, si conquista la
venerazione del popolo e l'amore di Elsa. Reo di aver confidato la propria
identità, rompe il voto della segretezza, e così facendo torna laddove
proviene.
Leggenda (e libretto) vuole che il bel Lohengrin raggiunga
i comuni mortali su una navicella trainata da un cigno. Ma Claus Guth, il
regista dello spettacolo, di cigni non ne ha proprio voluto sapere.
La spiazza questa scelta lei che è stato più volte Lohengrin?
«Per niente. Oggi il gusto è cambiato, è difficile accettare l'idea di
un cigno di plastica che arriva in palcoscenico. Mi piace l'idea di Guth di
tradurre il cigno con uno dei simboli sempre presenti in questa produzione».
Wagner non è il più «spendibile» dei compositori. Se poi si creano trame di
simboli, povero pubblico.
«Perché un cigno che arriva su una
barca aiuta a capire la vicenda?
Non credo. Per fedeltà al
libretto, allora dovremmo riprodurre il fiume e tutta una serie di cose
impossibili già all'epoca di Wagner. Ridurre è anche una necessità».
Questa produzione ci sbalordirà?
«Non è
tradizionale, d'accordo, però non provoca. È un'ottima via di mezzo fra
modernità e tradizione».
Cosa che lei apprezza...
«Sì, detesto le regie che introducono cose che non c'entrano solo per
creare novità. Questo Lohengrin è un antieroe che compare in una Germania
all'epoca di Wagner. Più non posso dirvi, così mi hanno chiesto. Mi hanno
spiegato che per la Prima si vuole creare un po' di mistero».
Che ne dice, lei pragmatico tedesco, delle nevrosi che si accendono
attorno a questo evento?
«Sento un po' di pressione, ovvio.
So che è uno spettacolo che attrae l'attenzione di tutto il mondo. Non
conosco altre città che per l'inaugurazione della stagione d'opera chiudono
il centro. Fantastico».
Cosa rappresenta la Scala del
Duemila? L'attualità è all'altezza della leggenda?
«Ha una
tradizione imbattibile, basta vedere il suo albo d'oro di prime mondiali. Un
teatro non può mantenere sempre lo stesso livello, e io non conosco nei
dettagli la situazione della Scala per potermi esprimere. So solo che
quand'ero uno studente avevo un sogno: cantare alla Scala». Certo che,
dopo Don José, torna di nuovo nei panni di un uomo, pur mitico, ma fragile.
«Lohengrin, è vero, è un antieroe, molto umano, un po'
vanitoso». Alla fine capisce che è tutta colpa sua se perde
Elsa. Svuotando il sacco come ha fatto, ha creato i presupposti perché la
sposa indaghi sulla sua identità.
E così se ne dovrà andare.
E lei come ci rimane?
«Male. Sei in palcoscenico da quasi
cinque ore, direi che è bene che l'opera finisca, però avverti la
frustrazione di questo personaggio, alla fine un po' depresso».
Lei è stato Lohengrin nella tana del lupo, a Bayreuth, il teatro di
Wagner. Debuttare qui alla Scala che effetto le fa?
«Lì ogni
frase, ogni gesto vengono comparati con quelli di altri colleghi del
passato. Non si dice, ma lo si fa: lo respiri nell'aria. Non è quindi facile
essere se stessi su quel palcoscenico. Fare Lohengrin qui è diverso, perché
la Scala ha una storia unica, fuor di dubbio, però è una storia che non ha
connessioni speciali con Wagner».
Mentre le avrebbe con
Verdi. Eppure è con Wagner che si inaugura l'anno operistico 2013, doppio
bicentenario Verdi&Wagner. La cosa ha sollevato un polverone.
«Lo so, e io non mi butto certo in questa battaglia. Dico solo che ora
siamo nel 2012. E che Lohengrin è la più italiana delle opere di Wagner. Per
questo, noi del cast siamo intrigati dall'idea di fare Lohengrin con un coro
e orchestra italiani».
E che ci dice del direttore, Daniel
Barenboim?
«Lui dirige tutto. Ma è forte anzitutto in
Wagner». |
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