Il Giornale della Musica, maggio 2010
Alessandro di Profio
 
Le voci di Jonas
Dargli appuntamento in una brasserie ai piedi del Teatro Chàtelet non si è rivelata proprio un’idea brillante. Non solo i due agenti al tavolo vicino cercano affannosamente di accalappiarlo con lo sguardo, smettendo brutalmente di parlare dellé prossime stagioni al Covent Garden, ma anche gli altri commensali, melo-mani o meno, faticano a non mettergli gli occhi addosso. Jonas Kaufmann non ha proprio nulla per passare inosservato. Ha quel genere di carisma magnetico che non lascia indifferente. Figuriamoci poi a Parigi in un ristorante nel bel mezzo di un quartiere di teatri. Sì, perché il nuovo direttore dell’Opéra National de Paris ha puntato tutto sul tenore tedesco. Lui che l’aveva scoperto la prima volta a Tolosa l’ha programmato per una produzione del Werther con la regia di Benoit Jacquot e la direzione di Michel Plasson, uno dei vecchi complici di Joel, un riferimento assoluto per l’opera francese. Ancora una volta in rottura con la precedente gestione dell’Opéra, la campagna pubblicitaria della nuova produzione dell’opera di Massenet non giocava su allusioni artistiche, ma sbatteva realisticamente in primo piano il protagonista su manifesti giganti, come se si trattasse di una star del cinema: la foto di Kaufmann ha per mesi tappezzato Parigi, spuntando ovunque, nella metro, alle fermate degli autobus, ad ogni angolo di strada. Un Kaufmann in formato Brad Pitt. Ma l’operazione è riuscita. Questo nuovo Werther è rapidamente diventato l’evento della stagione, spazzando via i ricordi del debutto esitante di Mireille con la regia proprio di Joel. Eppure i trionfi non sembrano troppo scalfire Kaufmann che a quarantuno anni è il tenore più richiesto pur continuando a conservare la freschezza di uno studente di Conservatorio. Gli occhi s’illuminano soprattutto quando la conversazione scivola sulla sua famiglia é su i suoi tre figli che quando può si porta con sé: moglie e bambini l’hanno seguito per qualche settimana pure a Parigi. Parla di musica con entusiasmo e competenza senza mai guardare l’ora: è un fiume in piena. Sarò costretto io alla fine della lunga intervista a fermarlo, preoccupandomi per la sua agenda fittissima. Il tenore è un vero anti-divo. E la nostra chiacchierata comincia con i dettagli di una seduta di massaggio da cui è appena reduce...

Si può dire che il Suo vero debutto fu il Doktor Faust al Festival di Salisburgo nel 1999 che la lanciò sulla scena internazionale?
«Si trattò di una particina (Lo studente). Direi che il mio vero debutto fu piuttosto Belmonte (Il ratto del serraglio) a Bruxelles. Per altro, accadde qualcosa di diverte: proprio dopo una recita a Bruxelles ricevetti in camerino la visita di Gérard Mortier entusiasta che voleva incontrarmi per pròpormi progetti di lavoro. Di fatto, si era dimenticato che mi aveva già fatto un’audizione a Salisburgo. E pensare che io avevo passato tutta l’estate ad aspettare una sua telefonata!».

Osservando la Sua carriera e i Suoi impegni tanto su scena che in disco, si può facilmente notare che ha costruito il suo repertorio su tre tradizioni: l’opera italiana, francese e tedesca. Per molti versi, la Sua è una carriera “all’antica” ha a lungo fatto parte di una troupe nella quale passava da un ruolo all’altro.
«Tutto questo, mi è Stato di grande aiuto per la mia evoluzione. Fortunatamente, non ha fatto, almeno per il momento, alcuna scelta sbagliata. Ma sa, non è facile. Scegliere un repertorio, impegnandosi per progetti a lunga scadenza e proiettandosi anche tra cinque anni, non è facile. Va tenuto presente quello che voglio fare e quello che la mia voce mi consente di fare. La voce non deve essere mai tenuta sullo stesso livello: è importante che sia flessibile. Dopo una parte wagneriana è importante trovare qualcosa di più leggero, ma non troppo. Sbagliare strada può essere molto pericoloso: per questo, costruire un calendario è estremamente difficile. In Italia, lo scorso anno, ho dovuto cancellare la mia partecipazione nella produzione alla Fenice di Roméo et Juliette di Gounod per problemi di schiena. Non posso intervenire in uno spettacolo stando sempre attento a quello che faccio: per me l’azione è importante. Non posso stare lì e pensare ad ogni istante che potrei farmi male. Tornado al repertorio, i primi anni, ho voluto assaggiare tutto perché la mia voce è capace di cantate un po’ tutto. Direi che mi fa bene non fissarmi su un solo tipo di repertorio. Un cantante mòlto ammirato come Alfredo Kraus ha fàtto in tutta la sua carriera solo cinque o sei ruoli! Non è fatto per me. Avrei paura di perdere la gioia di questo mestiere. E poi la voce ha bisogno delle difficoltà per migliorarsi: deve trovare sempre nuovi suoni, nuovi colori, un nuovo livello di forza. La novità può essere tecnica o stilistica, ma ècosì che la voce si arricchisce. Per riassumere, la varietà è utile, mi piace e mi riesce Ma non è una regola generale per tutti. Comunque, funziona per me».

Per questa ragione passa pure dall’opera ai lieder? Una delle sue recenti novità discografiche è Die Schöne Müllerin con Helmut Deutsch al pianoforte (Decca).
«Anche nell’opera è possibile, in alcuni casi, un tipo di emissione vocale tipica del lied. In Parsifal e in Lohengrin vi sono momenti in cui l’accompagnamento è quasi inesistente e bisogna cantare in modo liederistico. Anche i compositori francesi hanno sempre fatto un misto: penso ad esempio a Werther o alla Darnnation de Faust. Invece, Verdi, che conosceva perfettamente la voce, ha scritto sempre per un tenore di tipo lirico. Ma negli altri casi, l’esperienza liederistica mi è molto utile”.

Molte produzioni operistiche soffrono del peso eccessivo del regista che sembra diventato il numero Uno al posto del direttore: è questa la Sua sensazione?
«Quella della regia è effettivamente un problema. In Germania bisogna prevedere sei o sette settimane di prove. Ormai è difficile liberarsi per un periodo così lungo e dunque la conclusione è che tutti hanno già altri impegni altrove durante il periodo delle prove. Ma l’opera non è teatro. Spesso non si ha fiducia nella magia della musica che da sola racconta già una storia. Nella produzione di Werther a Bastille, la regia di Benoit Jacquot lascia un grande spazio alla musica senza fare quasi nulla: lo preferisco alla lunga ad altre regie. Sia io sia Jacquot detestiamo le prove interminabili. Il risultato è più spontaneo».

La produzione di Werther o quella di Fidelio sempre a Parigi lo scorso anno hanno confermato che alle doti vocali unisce pure un vero talento d’attore. Nel Suo percorso artistico ha beneficiato di una formazione alla recitazione?
«Francamente, ho esitato a lungo tra l’opera e il teatro. Mi è sempre piaciuto fare il clown, far divertire gli altri. Sin dal liceo. Ma ci vogliono anni per liberarsi: prima dalla paura e poi dalle ossessioni tecniche. Al Conservatorio, ho seguito lezioni, ma all’inizio tutto è artificiale. Ed invece è importante che non solo i suoni siano belli, ma che siano pure credibili: per questo dobbiamo poter trasportare emozioni. Mi sento come il personaggio che interpreto. Nel caso di Werther è tanto più difficile perché soffre dall’inizio alla fine. Questa sofferenza continua, sin dalla prima scena fino alla fine, non fa parte del mio carattere e dunque ho dovuto costruire sulla scena una forma di sofferenza pensando a ciò che potrebbe rendermi infelice. In fondo, tutta la storia dell’opera ruota intorno a tre sentimenti fondamentali: amore, morte e gelosia. Si tratta di sentimenti universali che ci parlano ancora oggi».

Quanto l’ha aiutata nella Sua carriera il fatto di essere unanimamente catalogato tra i belli?
«Certo aiuta per creare credibilità: quando non si ha il fisico, è tutto più difficile, specie per alcuni personaggi. Siamo in una società in cui si legge poco e si accende la televisione: non dobbiamo fare nulla e abbiamo la realtà davanti a noi, senza sforzi d‘immaginazione. Trent’anni fa, una bella musica era capace di creare suggestioni poetiche. Oggi non più. Il pericolo è che il pubblico si concentra troppo sul fisico, dimenticando quello che è più importante: il canto. Sono un cantante e non un modello! Purtroppo, ai giorni nostri, il pubblico vuole un’immagine e non per forza un’idea artistica».

Cosa si aspetta da un bravo direttore d’orchestra?
«Che respiri con i cantanti. Quando un direttore non respira, m’innervosisco e manco di fiato. Un buon direttore ci deve dare fiducia. Antonio Pappano mi dice di non guardarlo: siamo d’accordo su tutto e mi lascia fare: è perfetto».

E il Suo tenore preferito?
«Placido Domingo! Resta per me un idolo». Cosa farà da grande...? Come Placido, intravede una carriera anche come direttore d’orchestra?
«No, il direttore proprio no. Magari il regista... Per il momento faccio il cantante e poi mi divertirò... Ma chissà, potrei pure aprire un ristorante... Comunque se dovessi perdere la gioia di questo mestiere, mollerei tutto».

Per il momento, non sono certo le proposte che le mancano che arrivano da ovunque. Ci può anticipare qualche progetto futuro? Magari il ruolo principale nel. l’Otello di Verdi in cui ha già cantato Cassio?
«Otello sì, ma fra cinque anni; è una questione di voce. Nell’immediato, ci sono molti impegni. Sicuramente Wagner (Siegmund a New York l’anno prossimo), opera francese (Les Troyens di Berlioz, Manon a Chicago), ma anche opera italiana: Adriana Lecouvreur a Londra e ancora Andrea Chénier, Il trovatore...».

A proposito di Wagner, non si può dire che, per essere un tenore tedesco, ne abusi. A parte il Lohengrin a Monaco di Baviera lo scorso anno... (il 3 maggio per la ?? war nicht richtig lesbar. DVD la direzione di Kent Nagano).

Ma nel frattempo quest’estate vi sarà il mio debutto a Bayreuth nel Lohengrin di Hans Neuenfels con cui ho già lavorato. Per un tedesco, cantare nel teatro di Wagner è un’emozione immensa, anche se si respira pure un’aria di vacanza.»






 
 
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