L'Opera, dicembre 2010
Giancarlo Landini
 
Jules Massenet, Werther
 

Tradizione e innovazione convivono in questa edizione del Werther, a dir poco eccezionale. È un giudizio che riguarda lo spettacolo nel suo complesso senza che si possa separare la musica dal teatro e, per essere ancora più chiari, lo spettacolo stesso dalla sua trasposizione video. La regia viedo, modellata dalle stesse mani che hanno confezionato quella teatrale, produce qualcosa di nuovo e diverso che mette ancor più in rilievo l'abilità degli interpreti, la loro adesione all'opera di Massenet e a questa lettura. Il risultato è un film appassionante che trascende quanto si poteva vedere in teatro. I colori dell'alta definizione, i primi piani dei volti, le riprese dall'alto verso il basso nel momento più convulso del III atto, le rapide inquadrature dietro le quinte, le angolature inedite, sono elementi essenziali per la riuscita. Nessun compositore dell'Ottocento avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile.

L'allestimento è tradizionale e al tempo stesso stilizzato. È un Settecento sobrio e severo che sa aprirsi alle passione del pre-romanticismo. Le scene sono ampie e spaziose, ma essenziali nel tratto con un che di metafisico. Per esempio nel I atto, quel cielo azzurro nel quale si campisce il grande portone produce un effetto non illustrativo, ma straniante, come a suggerire un eden borghese che presto verrà distrutto da Werther. Per esempio la scena del III atto: un interno spoglio metafora discreta e raffinata di una casa senza amore, come quella abitata da Albert e Charlotte.

Le luci completano l'effetto, mentre i costumi aiutano gli artisti a ricreare il personaggio. Ognuno vi si cala con credibilità e naturalezza. Non si tratta solo di possedere il physique du rôle che rispetti lo status e l'età di Werther, Charlotte, Sophie e Albert. È la capacità di piegare il volto, i gesti, le espressioni alle necessità del dramma con esiti sempre eccellenti per tutti e straordinari in Jonas Kaufmann.

Kaufmann peraltro deve essere considerato Werther di levatura storica, il primo che nel dopoguerra riesca a dare continuità al filone più autentico degli interpreti di quest'opera. Werther ebbe come primo interprete Ernest van Dyck, un cantante francofono che salì con successo la sacra collina di Bayreuth, chiamato da Cosima stessa. Tenore robusto insomma, come fu poi Georges Thill, che non disdegnò i ruoli wagneriani.

Accanto a questo filone, emerse presto una seconda linea, più lirica e sospirosa che trovò mirabile accoglienza in alcuni grandi tenori latini, come Schipa, Valletti, Tagliavini e Kraus. Ma la vera natura di Werther rivela la sua compiuta espressione solo con voci che possano reggere alla pari il denso strumentale di Massenet, fare emergere interamente la vocalità del protagonista, dare alle sue sofferenze uno slancio più virile e più intenso.

In questa direzione si comprende l'accostamento di Corelli a Werther. Ma a Corelli mancavano alcune risorse che Kaufmann possiede e che ne fanno il più completo interprete di quest'opera assieme a Thill. Intanto Kaufmann canta in ottimo francese, con giusto rispetto della dizione e della prosodia, con un gusto della parola che solo un liederista della sua caratura può avere. Poi conosce lo stile: libero da portamenti che, già discutibili nell'opera italiana, qui devono essere banditi. Kaufmann però ha dentro la sorgiva schiettezza di un tenore italiano. Non a caso ha sottolineato in numerose interviste l'importanza della voce e del canto e ha indicato in Corelli un modello. Che segue, ma non imita. Ne coglie la lezione, ma ne evita i difetti. Ne rielabora gli insegnamenti all'interno con la sua personalità fortissima e spiccata di artista di razza. In più ci unisce il fascino di quella sua voce così particolare: voce di tenore, ma con un retrogusto baritonale, ma di una grana del tutto particolare. Non scura, non fosca, ma come velata, con una patina che aggiunge una sorta di emaciato sfinimento al personaggio e ne esalta l'abbandono poetico, l'ardente sentire, quell'essere votato all'infelicità e alla morte.

Aggiungete l'eccellente tecnica che lo fa robusto nei centri, ma elastico nell'acuto (e qui la tessitura lo aiuta) con in più l'arte della mezzavoce, del piano, del canto sfumato, della ricerca di spessori sempre diversi che passano da una declamazione quasi wagneriana ai più teneri trasalimenti. E questi ultimi sono resi senza smancerie, senza zuccheri filati, senza brillantine da tangueri. Kaufmann si fa guidare da un gusto sicuro e da un temperamento dove il tenore non prevale mai sull'artista. Un artista che vive il dramma e non lo usa per esibirsi. Sempre dentro la musica.

Siamo in presenza di Werther in persona e di un Werther che manda a casa tutti gli altri rivali. Vince su Alagna, perché la sua preparazione è di gran lunga superiore. Vince su Alvarez per l'approfondimento dello stile, per la corrispondenza al personaggio. Vince su Vargas per la maggior completezza. Vince su Meli per la più acuta adesione al mondo dell'opera francese. È più francese dei tenori francesi, senza i loro limiti e senza i loro vezzi. Inutile fare l'elenco dei momenti coinvolgenti. Ovviamente la Parabola del figliol prodigo. Ovviamente le Strofe dell'Ossian e il successivo Duetto. Ma soprattutto la morte vissuta parola per parola con una credibilità scenico vocale sconvolgente.
Si potrebbe concludere qui, osservando che il resto è un felice contorno. Ma non sarebbe vero né corretto. Sophie Koch ha le carte in regola per essere una magnifica Charlotte. Intanto la voce è giusta per fare il personaggio nello stile francese, senza cioè quell'eccesso di punta che le italiane o le italianeggianti ci mettono, specie se mezzosoprani. È una caratteristica che rende Charlotte giovane come dev'essere. Ma la Koch è capace anche di un fraseggio giudizioso e coraggioso, di un accento intenso, di una declamazione impetuosa, chiamata a siglare i momenti cruciali dell'azione.

Non è un caso che la Koch e Kaufmann emergano non solo nell'incontro del III atto, ma soprattutto in quel IV atto che, se non ben interpretato, può ingenerare noia. La Koch sa dire la frase e la sa vivere senza retorica e senza improvvisazione.

Non è da meno Ludovic Tézier, un Albert severo, ma non sinistro che canta con pienezza di voce. Ha timbro che si addice all'uomo maturo. Lo sposa al gesto commisurato a una virilità pensosa ben diversa dalla giovanile esuberanza di Werther. Ha un'espressione compresa nel ruolo e nelle responsabilità di chi ha un peso nella società a differenza dell'amico che ne è estraneo.
Due anni separano Albert, venticinquenne, da Werther. Ma sono un abisso. Werther è eternamente adolescente. L'altro è un giovane già maturo. Tutto questa appare con immediatezza ed è un valore aggiunto alla lezione di Tézier e di Kaufmann.

Gli altri sono un' ottima cornice. Ma Plasson con buona pace di certa critica italiana, che non lo ama, è l'anima dei quadro, è l'artefice dell'esecuzione, è l'interprete ideale della partitura. Ne coglie l'essenza, non si vergogna di nulla, vale a dire che non trascura le scene festose, un poco ingenue. Werther è l'opera di Massenet: un lavoro autonomo rispetto al romanzo di Goethe. Ne vive il dramma con schietta adesione, ma non confonde il realismo appassionato di Werther con il Verismo. Esalta le pennellate dense e soavi dell'orchestra. Le sposa con le scene di questo allestimento. Disegna con mano leggera l'ordito armonico che sostiene la prosodia del canto e fa uscire allo scoperto la modellatura tutta particolare della frase. Insegue le cellule tematiche e le accompagna ad ogni loro comparsa. Fa, come scrive Tubeuf, di quest'opera il requiem di un poeta. Lo fo con tutta la discrezione che la musica di Massenet richiede.

Note di copertina di alto livello. Grafica di prestigio. Ripresa in alta definizione e registrazione sono un capolavoro. Un altro miracolo della Decca.

 

 






 
 
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