Musica, marzo 2013
Aldo Nicastro
 
Wagner Die Walküre *****
 

Rivelandosi padrone del fraseggio wagneriano ben più che non si reputasse, Gergiev approda al secondo pannello del Ring — registrato in parte dal vivo, in parte a porte chiuse — valorizzandone con caparbia chiarezza, piuttosto che l'epicità del decorso musicale, una singolare, commossa rarefazione (non mancando magari qua e là di sottolineare con qualche contraddittorietà la focosa violenza di taluni fff). Certi impasti coloristici, certe pause, certa meditazione interiore ottenuta con effetto dinamico eccelso da quella meravigliosa orchestra che gli fa da sostegno, ottengono tutti di spostare l'asse interpretativo sul piano dell'esautoramento di potenza. Che non, è modo nuovissimo di accostarsi a quest'opera (fra
tutte quella che, con il Lohengrin, accampa con maggior risalto i diritti della liricità), ma ottenuto con tale e tanta esibizione di tecnica narrativa da ricavarne un musi. Ci sarebbe solo da scegliere: la gravità, più dolente che corrusca, che accompagna la solitaria confessione di Wotan nell'atto II; la suprema tensione erotica che avvolge il dialogo dei fratelli incestuosi nell'atto I; la magnifica sacralità dell'annunciazione di morte fra Brünnhilde e Siegmund ancora nell'atto II.

A ottenere siffatto esito non poco contribuisce lo stellare cast che coadiuva la bacchetta. E soprattutto il duo Kaufmann-Stemme. Credo che oggi Kaufmann si possa reputare senza incertezze il più importante esemplare di quel tipo di tenore che si usa definire lirico-drammatico; a ciò contribuiscono diversi fattori, il primo dei quali attiene non tanto al particolare fascino del colore (che ha sfumature baritonali) quanto al magnifico uso che egli ne fa per sussidio di una tecnica davvero fuori quota. La naturale brunitura, valorizzata da un sistema di emissione e respirazione eccellenti, gli consente di affermare una presenza oggi difficilmente eguagliabile, tale da richiamare alla memoria paragoni imbarazzanti, primo fra i quali quello con Lauritz Melchior. E in questo Siegmund le testimonianze paiono esemplari: fraseggio, legato, ampiezza degli armonici, robustezza dei centri, tutto parla di un'eloquenza del dettato narrativo di gran marca ove perfino le pause, intelligentemente sfruttate, scolpiscono un personaggio indimenticabile. E non da meno è la Brünnhilde di Nina Stemme, il cui profilo vocale di bella austerità consona con le mire di Gergiev offrendo alla vergine guerriera un alito di elegia lirica di rara bellezza. Il che dimostra quanto fondato fosse, al di là degli stereotipi, il richiamo di Wagner ai cantanti, durante le prove del primo Ring a Bayreuth, «non mai recitativo, che non c'è nella mia musica, ma canto ». La prova di questi due artisti stende dunque sulla musica di Walküre un affascinante velo di malinconica interiorità che fa giustizia di ogni vociferazione delle solite e restituisce a Wagner quel clic gli compete, ovvero una maestria del dettato canoro che troppi dimenticano e che il direttore russo e i suoi protagonisti si ingegnano a restituirgli.

Il terzo autorevole asse di tal visione eterodossa è, sebbene con timida riserva, il basso René Pape, grande fraseggiatore anch'egli, nei panni di un Wotan sottratto all'imperio della regalità ad ogni costo. Non è chi non conosca il magistero e il canto di rara morbidezza di questo basso; il fatto è però che destrutturare I'archetipo potenza in un'opera sì esposta al dominio dell'epico è un conto assai apprezzabile, un altro è abbandonarvisi senza rete e per di più fruendo di un'estensione in alto non sempre consona alla parte; e di finto questo Wotan, che appare più rassegnato che imperioso, soffre visibilmente di qualche inavvertibile carenza di peso, anche se I'ottima tecnica lo trae quasi sempre fuor dei perigliosi gorghi della scrittura, divisa equamente tra meditazione e furia. E ovvio comunque che non mancano a Pape momenti di suggestione intensa, che riscontriamo, pere un unico esempio, nel lungo soliloquio, qua e là interrotto dalla figlia, dell'atto Il, il cui finale « das Ende!» è un sussurro disperato di notevole bravura. Il triplice asse, insomma, ha alla fine il suo perché.

Il rimanente del cast non esibisce, nel complesso, altrettale perizia ma è ben lungi dall'essere manchevole, se si eccettua forse lo Hunding di Mikhail Petrenko, il cui colore non è mai scuro a sufficienza e la cui presenza si rivela tutt'altro che minacciosa. Ma assai brava è Anja Kampe nell'offrire a Sieglinde bellezza di colore e intensità d'espressione; e di più che dignitoso impatto è infine la Fricka di Ekaterina Gubanova. In quanto poi all'Orchestra del Mariinsky, tocca ribadirlo, siamo al top dell'immedesimazione idiomatica. Un paese che, come la Russia attuale, può esibire al mondo due compagini del livello di questa e della compatriota di San Pietroburgo, sarà pur un paese in crisi di identità e valori sociali, ma in fatto di musica lasciamoli stare: i paragoni resterebbero impietosi con buona parte del mondo occidentale.

 

 






 
 
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