|
|
|
|
|
L’Ape musicale, 14 Marzo 2023 |
di Luigi Raso |
|
Ancora Turandot
|
|
Il
catalogo delle incisioni di Turandot di Giacomo Puccini è ricco di
edizioni di assoluto pregio, alcune diventate, per i più vari motivi, di
culto nonché pietre miliari della ricchissima discografia dell’opera.
Quando viene annunciata l’uscita di una nuova registrazione (in studio,
per giunta: sempre più rare e impegnative economicamente) di un titolo
così tanto frequentato, la domanda che il melomane discofilo si pone è
quasi sempre “è davvero necessario ascoltare l’ennesima incisione di
quest’opera?”
Per rispondere a questa domanda, prima di scrivere
queste considerazioni su questa attesa produzione dalla Warner Classics,
ho ascoltato più volte i due CD che la compongono, nata a latere di una
trionfale performance all’Auditorium Parco della Musica di Roma del
marzo 2022. [Roma, Turandot, 12/03/2022]
Ebbene, la mia risposta
all’interrogativo precedente è la seguente: questa Turandot diretta da
Pappano può essere accostata all’edizioni più blasonate dell’ultimo
capolavoro di Puccini; si potrà obiettare che, dati gli esiti altissimi,
tra i vari, di Zubin Mehta ed Herbert von Karajan, è difficile
aggiungere qualcosa ad una partitura approfondita, analizzata e
ampiamente metabolizzata da insuperabili edizioni del passato.
Eppure la meravigliosa direzione di Pappano - sì, ‘meravigliosa’: questo
è l’aggettivo più appropriato alla sua concertazione - diventa
l’inesausta sorgente di una cantabilità che declina al suo interno,
senza mai perderne l’unitarietà e la bussola, il lirismo delle melodie
pucciniane, l’esotismo musicale con i suoi suoni che si fanno odori
(come ci ha svelato Karajan), la forza barbarica della folla, le
atmosfere notturne, l’erotismo, il compianto cinereo sull’innocente
sacrificata per il trionfo finale.
Ma è l’intera articolazione
della concertazione di Pappano, quel suo lavorìo incessante di scavo e
sutura delle gemme armoniche e strumentali di cui è disseminata la
partitura, a sbalordire, per cura del suono, dei particolari e,
soprattutto, per la sempre desta potenza drammatica. Ad inchiodare alla
poltrona, anche al terzo ascolto, è quella genuina e chiara capacità di
Pappano di ‘raccontare’, di far declamare, senza mai un calo di
tensione, una partitura che procede affiancando bozzetti sonori tra loro
eterogenei. Il punto di forza di Pappano, ad avviso di chi scrive, è da
individuare nel suo far vibrare l’intero corpus della partitura
pucciniana, esaltando ciascun aspetto degli ‘episodi’ musicali che la
compongono, senza mai smarrire il filo della teatralissima visione
generale.
Ma questa incisione è interessante anche per un aspetto
‘filologico’: presenta nella sua integrità il finale dell’opera ideato,
seppur su alcuni abbozzi di Puccini, da Franco Alfano. Arturo Toscanini,
infatti, in vista della première dell’opera del 1926 al Teatro alla
Scala, chiese ad Alfano di modificare la struttura del finale,
tagliandone oltre cento battute. Da allora, quindi, è stata eseguita
quasi sempre la “versione Alfano-Toscanini” del finale dell’opera. Con
l’incisione diretta da Antonio Pappano viene ripristinato il finale
‘integrale’ di Franco Alfano.
Un risultato così eccelso e
interessante sul versante della concertazione non è ipotizzabile senza
due strumenti, in letterale stato di grazia, quali l’Orchestra
dell’Accademia di Santa Cecilia e il Coro della stessa Fondazione.
L’Orchestra ceciliana ci dimostra ancora una volta di essere la
migliore orchestra italiana. È un’affermazione che suona come un
assioma; ma il primo ascolto ne dimostrerà la fondatezza. La compagine è
fonte inesauribile di colori, nuances e beatitudini uditive. Stupiscono
i suoni perennemente cangianti - luminosi, tersi, marezzati, plumbei,
che diluiscono e sfumano come i colori di un acquerello di Turner -,
l’ampio ventaglio delle dinamiche, l’omogeneità tra le sezioni, gli
ottoni poderosi ma che, al pari degli archi, sono intrisi di vibrante
cantabilità ‘italiana’, lo scintillio barbarico del reparto percussivo.
Insomma, un complesso in simbiosi con l’opera di Puccini, un organismo
orchestrale pulsante, dagli ingranaggi perfetti e precisi; ma allo
sfoggio della perfetta tecnica c’è da aggiungere un altro elemento,
impalpabile ma percepibile, l’anima dell’interpretazione. L’Orchestra è
infatti il protagonista meglio compiuto dell’intera incisione: il suo
fraseggio risulta quello più scolpito, l’elemento dal quale si irradia
la luce su un cast che, viceversa, si compone anche di chiaroscuri e
zone d’ombra. Pappano, forse perché a conclusione dei suoi anni alla
guida dei complessi di Santa Cecilia, infonde alla sua orchestra uno
spirito immediatamente individuabile, una distinguibile cifra
connotativa al vibrante respiro orchestrale, epitome e coronamento, a
giudizio personale di chi scrive, delle precedenti e lodevoli incisioni
pucciniane dello stesso direttore britannico-italiano (La bohème, Tosca,
Madama Butterfly, Il trittico e La rondine).
Al medesimo livello
tecnico dell’Orchestra si pone il Coro, diretto da Piero Monti: i suoni
che sprigionano gli artisti del coro di Santa Cecilia sono poderosi,
melliflui, soffusi, trionfanti nell’integrale finale di Alfano. Il Coro
è tanto tellurico e brutale nel principio dell’atto I che quasi spaventa
per forza fonica; ma poi sa sciogliersi in un effluvio lirico
nell’invocazione alla luna e in un accorata invocazione di misericordia
nell’implorare la grazia per il Principe di Persia. Si può affermare che
il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è il contraltare, per
perfetto funzionamento, dell’orchestra, compiuta sintesi di colori, di
sbalzi dinamici; e, come la consorella strumentale, possiede una ‘voce’
che si impone per l’idiomaticità del suo canto.
Perfetto nei suoi
interventi anche il Coro di Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di
Santa Cecilia; di grande suggestione in "Là, sui monti dell’est",
citazione quasi pedissequa da parte di Puccini di un antico canto
tradizionale cinese.
I pilastri sui quali poggia questa
pregevolissima incisione, oltre quelli portanti della direzione di
Pappano, l’Orchestra e il Coro, sono, ovviamente, i cantanti.
La
Warner Classics fa le cose in grande, schierando un cast composto da
star della lirica contemporanea.
Sondra Radvanovsky è una
Turandot dalla magnifica caratura vocale: il tonnellaggio della sua voce
è quello richiesto dalla parte; si ascolta qualche asprezza propria del
timbro del soprano statunitense, ma l’artista dimostra di aver una
visione della gelida principessa che serba, già prima dell’abbandono
amoroso finale, guizzi di umanità: molto suggestivo è l’alleggerimento
dell’emissione nel duetto con Liù "Chi pose tanta forza nel tuo cuore?",
che si ascolta dopo i cannoneggiamenti vocali di "In questa reggia" e
"Straniero, ascolta!", laddove pur si intuisce, nelle pieghe del
fraseggio della Radvanovsky, la futura evoluzione psicologica del
personaggio.
Purtroppo il Calaf di Jonas Kaufmann, quello che
avrebbe dovuto rappresentare uno dei punti di forza dell’incisione, alla
prova dell’ascolto attento si dimostra essere quello più debole o,
quantomeno, discutibile. La sensazione immediata è quella che il tenore
tedesco sia arrivato tardi all’appuntamento con Calaf: il suo timbro si
è prosciugato ancor più rispetto all’incisione - sempre diretta da
Pappano, e con i complessi di Santa Cecilia - dell’Otello verdiano: di
squillo, in questo Calaf, n’è rimasto davvero poco. L’emissione si è
indurita e le mezzevoci, campo di battaglia privilegiato di Jonas
Kaufmann, non hanno più la suggestione e la malia di una volta: "Non
piangere, Liù!", nelle battute iniziali è attaccata con mezzavoce non
ben appoggiata, tanto che risulta più simile ad una canzone che una
romanza operistica. Kaufmann amministra al meglio la parte, non
mancandone di sottolinearne acuti e momenti eroici; ma l’interpretazione
del Principe Ignoto non ha una propria originale cifra connotativa. Il
suo timbro manca del tutto di quello squillo argentino - si pensi a
quello di Miguel Fleta e, ancora più, a quello di Giacomo Lauro Volpi,
destinatario ‘ideale’ della parte di Calaf - che pur è necessario.
Chi è partecipe con la visione interpretativa di Pappano è Ermonela
Jaho che, al netto di qualche forzatura talora percepibile, delinea una
Liù da manuale per tecnica vocale e per rifinitura psicologica della
giovane schiava. Il consueto canto sfumato della Jaho è un portento di
impostazione, la pennellata che rifinisce il ritratto di una Liù
tribolata, pervasa e dominata da un amore genuino e disperato, emblema e
coronamento dei personaggi femminili che, in Puccini, pagano con la vita
la ‘colpa’ di aver amato. Ermonela Jaho, nel delineare una Liù fragile,
votata alla sconfitta, scolpita e cesellata nelle intime pieghe
psicologiche, rende la sua interpretazione il punto di maggior interesse
vocale di questa Turandot.
Per questa incisione in studio -
sempre più rare per l’odierno mercato del disco - la Warner Classics
schiera un cast stellare anche per i ruoli secondari.
Può
apparire uno spreco scritturare uno dei più grandi tenori - anzi,
baritenore - in circolazione nella piccola ma significativa parte
dell’Imperatore Altoum: Michael Spyres è un lusso e un cammeo
perfettamente incastonato in questa incisione di Turandot. Così come è
magistrale, per lezione di canto più che per sfoggio di mezzi vocali, il
Timur di Michele Pertusi. Ma le sorprese non finiscono qui: Mattia
Olivieri, Gregory Bonfatti e Siyabonga Maqungo compongono il
teatralissimo e arguto terzetto di Ping, Pang e Pong. Fan bene anche le
due ancelle di Turandot, Valentina Iannotta e Raksha Ramezani Melami,
così come il Principe di Persia di Francesco Toma. Decisamente inferiore
al livello generale del cast, invece, è il Mandarino, dall’emissione
rude e dura, di Michael Mofidian.
E quindi, in conclusione, come
giudicare questa incisione di Turandot? È una registrazione che si
impone principalmente per la ispiratissima direzione di Antonio Pappano,
per il florilegio sonoro di quel meraviglioso strumento che è Orchestra
dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e per il suo Coro, formazione
incisiva, poderosa e raffinata.
Due ultime considerazioni su
questa incisione: se la direzione di Pappano può accostarsi all’altezza
di quelle di riferimento di Turandot, il cast vocale, purtroppo, non
raggiunge il livello, per omogeneità e interesse, di quelli delle più
blasonate edizioni. Dal punto di vista strettamente tecnico, la
registrazione della Warner Classics assicura perfetta risonanza a tutte
le componenti della incisione: orchestra e coro nitidissime, perfetto
l’equilibrio sonoro con i solisti. Ripresa del suono ampia e avvolgente.
Saggio del libretto di accompagnamento a firma di Antonio Pappano,
in inglese e francese; libretto dell’opera corredato dalla traduzione in
inglese. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|