Classic Voice, 01 settembre 2011
di elvio giudici
 
Puccini – Tosca
 
L’idea centrale è l’essere Tosca un’attrice: creatura fittizia, dunque, come tanto o poco sono tutti gli animali di teatro. Per traslato, si mette in scena l’eterna contraddizione insita in coloro che si trovano a mezzo del bivio tra finzione da far sembrare vera, e vera realtà. Conflitto, questo, molto caro a Carsen: che lo ha esplorato ripetutamente, e con risultati sensazionali, tanto in Capriccio quanto nei Contes d’Hoffmann, grazie alla tipica soluzione teatro-nel-teatro.
Primo atto: siamo in platea, davanti a un grande sipario rosso e oro: sono in corso le prove dello spettacolo che al suo centro prevede una parte da Gran Diva. Lo scenografo Mario Cavaradossi dipinge la Maddalena avendo in mano la foto di Tosca quale compare nel programma di sala e quale infine entra in sala: tailleur, occhiali neri da diva un po’ d’antan, camminata già “in parte”. Alla recita ancor manca il regista: che è Scarpia, tutto in nero, altissimo, resosi visibile all’improvviso con fare teatralissimo in alto, illuminato da un occhio di bue tra le colonne contro cui poggia il ritratto rosazzurro della Maddalena. Tutto l’apparato diciamo così divesco di Tosca, il regista lo sollecita di continuo: ma la realtà del palcoscenico – dove ci si sforza di far sembrare vera la finzione – lo pone ogni volta tra virgolette. Le sue esplosioni, sempre molto teatrali e quindi molto fasulle, riescono nel contempo sincere ove riferibili alla verità del personaggio. “Tu non l’avrai, stasera, giuro!”, ad esempio, viene accompagnato da grande gesto e grandissima mimica stravolta, come s’addice alla scena-madre d’un teatro non proprio rifinito ma senz’altro d’effetto: e puntualmente due coristi, nonostante urga la gran scena del Te Deum, si precipitano festanti col libretto degli autografi aperto, lo stesso distribuito nel foyer prima dello spettacolo. Te Deum che viene provato “all’italiana”, ovvero tutti seduti su sedie schierate al proscenio davanti al sipario chiuso: che però proprio verso la fine si apre rivelando un grandioso trionfo barocco con lampadari pendenti, due angioloni dorati che ai lati della scena piombano dall’alto dirigendo verso il basso le lunghissime trombe, un semicerchio di vescovi in alta tenuta e benedicenti, che al suo centro ha Tosca nelle vesti della Madonna, gigli tra le braccia, piede che poggia sul globo terrestre illuminato, davanti a un baldacchino su cui è posato un sole di raggi dorati.

Secondo atto: backstage. Un muro di mattoni contro cui poggiano le sedie impiegate per il Te Deum ma anche la Maddalena dipinta da Cavaradossi, che Scarpia si tiene sempre davanti e Cavaradossi, che lo sa, occulta con la propria persona piazzandocisi proprio contro nel fronteggiare il regista durante la prova improvvisata: il quale, furioso, lacera la tela con un coltello lasciandolo poi a terra, dove quasi per caso lo raccatterà Tosca. Una recita, ovviamente, anzi “La” recita, è pure “Vissi d’arte”: al termine della quale il regista applaude con fare sardonico, e poi Floria comincia con la lentezza calcolata dell’attrice esperta a slacciarsi il vestito da gran sera preparandosi all’”orrendo amplesso” con movenze e giravolte che la fanno inciampare nel coltello mentre Scarpia scrive un contratto.

Terzo atto: la recita vera e propria, su di una platea che termina in una vasta zona buia rappresentante il boccascena, contemporaneamente reale e fittizio. Dove realtà e finzione si saldano, cioè, ma anche dove si scopre come l’unica realtà sia la morte. Cavaradossi affida “il suo ultimo addio” allo schizzo d’un grande occhio nero tracciato col pennello sulla parete scenica che rappresenta Castel dell’Angelo; ed è struggente il suo cullare con tenerezza infinita Floria: una delle rare volte in cui “la trionfalata” esplica la sua vera natura, quella di sparare a pieni polmoni al fine di cercare disperatamente di credere in un’illusione che s’intuisce essere impossibile. Lei lancia l’ultima frase al centro d’un occhio di bue dalla luce bianca fortissima, entra nella zona buia – quella dove realtà e finzione scenica si compenetrano – sparendo così alla vista ma solo per riemergerne subito dopo: trionfante e osannata, con due inservienti che le recapitano enormi mazzi di fiori inviatile dal pubblico “della recita” che però s’identifica con quello reale.

Regia senz’altro geniale, e soprattutto una regia: nel senso che non un gesto è privo di significato o – peggio – sganciato dalla musica. Pure, una Tosca non convincente. Sgombriamo subito il campo: non certo perché questo o quel particolare contrasta col libretto. Anzi: trattandosi dopotutto d’una recita vista nel suo costruirsi scenico, nessun passaggio può veramente dirsi anacronistico. Il punto è un altro. L’equivalente registico del manierismo vocale o recitativo, è la masturbazione intellettuale: che a me pare appunto presiedere a questo spettacolo. È vero che non s’è mai contenti, in un certo senso. Quando uno spettacolo non ha idee, se ne lamenta la banalità; quando sono troppe, se ne lamenta la dispersività; quando, come in questo caso, sono tutte a senso unico, si vorrebbe un ventaglio più ampio. Perché se è vero che quanto c’è è di estrema coerenza, a me pare tuttavia non racconti una storia e neppure indaghi un qualche sottotesto che ne chiarifichi taluni aspetti psicologici: ma sia un’elegantissima, raffinatissima, intelligentissima, teatralissima dimostrazione della natura archetipica posseduta da certi personaggi, in questo caso melodrammatici.

Di livello notevole la parte musicale, che ovviamente tiene conto di un’impostazione registica tanto particolare. Carignani dirige dunque con estrema cura al dettaglio, ampio pulsare dinamico, tempi la cui elasticità stabilisce perfetta simbiosi col palcoscenico. Una sorpresa la Magee. Dizione eccellente, prima di tutto, alla base di un accento che gioca con grande abilità il doppio registro “dentro” e “fuori” del personaggio; le note le possiede tutte, e le emette bene; recita meravigliosamente: un’ottima Tosca. Thomas Hampson non sarebbe uno Scarpia nato in una recita tradizionale, ma qui è a suo perfetto agio, cantando ma soprattutto fraseggiando e colorando con intelligenza straordinaria. Jonas Kaufmann è Kaufmann. Non solo il tenore migliore del momento, ma uno degli artisti che più stanno contribuendo a cambiare faccia (in meglio) alla tradizione melodrammatica, portandola di peso entro un modo moderno di concepire il teatro musicale come teatro tout court: ma senza per questo rinunciare a cantare come oggi non riesce a nessuno.
 
 
 






 
 
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