il giornale della musica, novembre 2013
Bianca De Mario
 
Verdi gran finale
In dvd il Requiem con i complessi della Scala diretti da Daniel Barenboim, che in una intervista spiega la sua interpretazione

Una mossa vincente in partenza, l'ultimo lancio di Decca. Non soltanto per la bacchetta magnetica e penetrante di Barenboim e per la presenza di un quartetto stellare che vede Kaufmann accanto ad Harteros, Garanca e Pape. Ma anche perché questo Requiem, corollario degli omaggi verdiani. rompe il lungo silenzio del Piermarini, la cui sala torna finalmente a vedersi in video.

Oscilla tra italianità e universalità, spirituale ed umano Daniel Barenboim raccontandoci l'ultimo Verdi. Lo diresse per la prima volta negli anni '80 a Berlino: fu il debutto di Pavarotti nella capitale tedesca, momento in cui il tenore gli aprì gli occhi su tutti quegli aspetti dell'opera verdiana che riguardavano il suono, la voce, il fraseggio ed il rubato. Fu poi la volta di Domingo, in quel di Chicago. Di tutte le sue direzioni della messa, ammette tuttavia di aver trovato «raramente un quartetto così equilibrato a livello espressivo».

E prosegue poi sulle differenze dell'esecuzione del brano, tutto italiano, anche in un contesto extraeuropeo; «Chicago rispetto alla Scala. Il tema dell'italianità in Verdi è come lo spirito teutonico in Wagner, Beethoven, Brahms. Ciò che è interessante è l'arrivare ad una forma di coesistenza, che è tipico del Paese, dello stile del compositore e l'espressione universale. Non comparerò l'or, hestra — spiega ridendo - paragoni tra orchestre, vini e donne non se ne devono fare!». Ci offre poi una lezione di esecuzione estremamente importante. «I buoni musicisti americani hanno una necessità fortissima di capire il mondo dell'altro: è come studiare una lingua straniera, per questo hanno una grande apertura ai diversi stili, loro devono fare il cammino dall'universale all'italiano. Gli italiani invece devono affrontare il passaggio contrario dall'italianità all'universalismo. Alla Scala, oltre ad una fantastica immaginazione ho trovato una grandissima apertura in questa direzione». In questo caso, è Verdi stesso a mettere lo zampino, facilitando questo afflato universale. «Non è uno di quei musicisti che vede la musica fuori dalla realtà quotidiana, non è una torre d'avorio in cui si scappa per sfuggire scontenti dalla nostra esistenza». Sofferto e meditato, drammatico e sensuale al tempo stesso, questo Requiem è per Barenboim «espressione di tutti gli stati d'animo che abbiamo pensando alla morte, pensieri non preparati, inaspettati e dunque di grande intensità». Forse qualcosa che potrebbe aiutare a superare localismi e squilibri geopolitici, ricordandoci che questa morte così temuta e difficile da accettare è, oltre ogni religione, nazionalità e conflitto «quanto di più democratico ci sia al mondo».

 






 
 
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