Una mossa vincente in partenza, l'ultimo lancio di Decca. Non
soltanto per la bacchetta magnetica e penetrante di Barenboim e
per la presenza di un quartetto stellare che vede Kaufmann
accanto ad Harteros, Garanca e Pape. Ma anche perché questo
Requiem, corollario degli omaggi verdiani. rompe il lungo
silenzio del Piermarini, la cui sala torna finalmente a vedersi
in video.
Oscilla tra italianità e universalità,
spirituale ed umano Daniel Barenboim raccontandoci l'ultimo
Verdi. Lo diresse per la prima volta negli anni '80 a Berlino:
fu il debutto di Pavarotti nella capitale tedesca, momento in
cui il tenore gli aprì gli occhi su tutti quegli aspetti
dell'opera verdiana che riguardavano il suono, la voce, il
fraseggio ed il rubato. Fu poi la volta di Domingo, in quel di
Chicago. Di tutte le sue direzioni della messa, ammette tuttavia
di aver trovato «raramente un quartetto così equilibrato a
livello espressivo».
E prosegue poi sulle differenze
dell'esecuzione del brano, tutto italiano, anche in un contesto
extraeuropeo; «Chicago rispetto alla Scala. Il tema
dell'italianità in Verdi è come lo spirito teutonico in Wagner,
Beethoven, Brahms. Ciò che è interessante è l'arrivare ad una
forma di coesistenza, che è tipico del Paese, dello stile del
compositore e l'espressione universale. Non comparerò l'or,
hestra — spiega ridendo - paragoni tra orchestre, vini e donne
non se ne devono fare!». Ci offre poi una lezione di esecuzione
estremamente importante. «I buoni musicisti americani hanno una
necessità fortissima di capire il mondo dell'altro: è come
studiare una lingua straniera, per questo hanno una grande
apertura ai diversi stili, loro devono fare il cammino
dall'universale all'italiano. Gli italiani invece devono
affrontare il passaggio contrario dall'italianità
all'universalismo. Alla Scala, oltre ad una fantastica
immaginazione ho trovato una grandissima apertura in questa
direzione». In questo caso, è Verdi stesso a mettere lo zampino,
facilitando questo afflato universale. «Non è uno di quei
musicisti che vede la musica fuori dalla realtà quotidiana, non
è una torre d'avorio in cui si scappa per sfuggire scontenti
dalla nostra esistenza». Sofferto e meditato, drammatico e
sensuale al tempo stesso, questo Requiem è per Barenboim
«espressione di tutti gli stati d'animo che abbiamo pensando
alla morte, pensieri non preparati, inaspettati e dunque di
grande intensità». Forse qualcosa che potrebbe aiutare a
superare localismi e squilibri geopolitici, ricordandoci che
questa morte così temuta e difficile da accettare è, oltre ogni
religione, nazionalità e conflitto «quanto di più democratico ci
sia al mondo».
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