Musica, Maggio 2014
Luca Ciammarughi
 
Wagner - Parsifal *****

Nel bicentenario wagneriano, il Metropolitan ha fatto di tutto per mettere in scena una nuova produzione di Parsifal che lasciasse un segno profondo, e bisogna dire che l'obiettivo è stato raggiunto, grazie a un cast ideale e a una regia essenziale che non distoglie l'ascoltatore dalla centralità del fatto musicale, restituito con profonda calma interiore dalla direzione di Daniele Gatti. Non è, questo, un Parsifal per tutti. Chi cerca brillanti provocazioni registiche, scene appariscenti, trovate che tentino di addolcire un ascolto che — nonostante la bellezza — non è propriamente uno zuccherino (si tratta pur sempre di quattro ore e mezza abbondanti di musica), dovrà rivolgersi altrove. Siamo lontanissimi dalla produzione, ad esempio, che Stefan Herheim mise in scena a Salisburgo nel 2011, sempre con Gatti sul podio: quanto quella era creativa e coloratissima, tanto questa di Girard è sobria, quasi spartana, atta a stimolare quel raccoglimento interiore senza il quale Parsifal sarebbe, in effetti, un'opera senza senso. Il set è costituito da un paesaggio lunare, pressoché post-apocalittico, nel primo e terzo atto: i fondali crepuscolari, con cieli rossi o nuvole grigie in lento movimento, suggeriscono l'idea di 00 mondo giunto allo stadio ultimo del suo declino, che verrà salvato in extremis dalla profonda compassione che muove il protagonista. Si potrebbe però anche dire che Girard concepisce una scena che si pone fuori da ogni tempo: più simbolica che narrativa, più esistenziale e filosofica che psicologica. Il secondo atto, invece che creare un contrasto attraverso una rappresentazione lussureggiante del giardino di Klingsor, è ancora più cupo degli altri, svolgendosi in un abisso sanguinoso al cui centro si pone un unico letto. Essenziali e volutamente impersonali sono anche i vestiti: gli uomini in camicia bianca e pantaloni scuri; le donne, nel secondo atto, in cilicio bianco; solo Parsifal si distingue per la sua tenuta scura, quasi una tuta da lavoratore. Girard ha affermato che il suo obiettivo è stato quello di lasciare che traspaia «ciò che conta » (sostanzialmente, il messaggio filosofico e la profondità intrinseca al fatto musicale), senza voltar gettare a tutti i costi il dramma wagneriano in un nuovo contesto. In questo, la sua regia è perfettamente in linea con la direzione di Daniele Gatti, che rifiuta sistematicamente qualsiasi effetto atto a suscitare stupore, per costruire invece un grande arco fondato sull'introspezione e sulla graduale conquista di una sorta di nirvana conclusivo. Il primo atto (di un'ora e cinquantasei minuti) funge quasi da iniziazione agli altri due: ogni ansia, ogni eccesso nervoso viene eliminato, per creare quello spazio interiore che nel finale si traduce in vera e propria ascesi mistica. Perciò, Girard e Gatti sembrano lesinare fin da subito gli edonismi —pur allettanti — che abbiamo visto e sentito in altre produzioni: la loro scelta, incline a un'attitudine contemplativa e sostanzialmente priva di compromessi, sembra proprio riallacciarsi all'idea wagneriana (e schopenaueriana) della conquista del nirvana attraverso la rinuncia. Nulla è di troppo: lo si sente fin dal Preludio, in cui Gatti — grazie a un ottimo equilibrio tra abbandono espressivo e controllo della sonorità — distende il discorso con una solennità semplice ma partecipe. E un tempo inteso come pura durata, quello di cui facciamo esperienza in questo Parsifal: allo scorrere narrativo (che pur non è assente, specie nel secondo atto) si sostituisce un'esperienza soggettiva del tempo, vissuto oniricamente come dimensione più circolare che lineare (in questo, effettivamente, Parsifal sembra evocare procedimenti schubertiani o bruckeriani, più che beethoveniani). La dilatazione dei tempi (otto minuti in più rispetto alla versione già molto ampia diretta da James Levine) è quindi del tutto funzionale non solo a un'immersione nel Sublime, ma anche a una nuova concezione della temporalità, che al Sublime è strettamente correlata. Se si cerca l'azione a tutti i costi, semplicemente non bisognerà rivolgersi a Parsifal (forse un'eccezione è il secondo atto, in cui avremmo desiderato qualche momento di maggior veemenza sonora). E così avviene anche a livello di una regia in cui la semplicità diviene, di questi tempi, del tutto originale (Parsifal e Kundry non girano nudi, come si è visto altrove, ed Amfortas non estrae il proprio fegato per darlo in pasto ai cavalieri!).

La qualità del cast vocale è molto alta: Jonas Kaufmann è un Parsifal dal timbro caldo e dal carisma assoluto; nel contempo, dal punto di vista attoriale, egli riesce perfettamente a incarnare la freschezza dell'eroe puro, quasi ingenuo (come avviene in molta letteratura tedesca, fino all'Hans Castorp di Mann e oltre), la cui assenza di corruzione è condizione indispensabile per intraprendere un cammino iniziatico alla rovescia, fondato in questo caso sull'idea di rinuncia piuttosto che su quella di sete di esistenza. Se Kaufinann è una conferma, ancor più sorprendenti sono le interpretazioni di Evgeny Nikitin, un Klingsor superbo, e di Peter Mattei, un Amfortas intenso come pochi altri. Katarina Dalayman è ottima nel ruolo di Kundry (anche se forse non ai livelli di Waltraud Meier), il veterano Ren• Pape è un Gurnemanz pregnante e solidissimo, forse fin troppo omogeneo nel colore vocale. La qualità della presa Sony è lievemente inferiore alle aspettative, a causa di un suono un po' privo di calore nelle basse frequenze. Ci sono però i sottotitoli in italiano e nel complesso siamo di fronte a uno dei migliori Parsifal degli ultimi decenni.






 
 
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