Classic Voice, marzo 2014
ELVIO GIUDICI
 
Wagner - Parsifal *****

In un'eventuale categoria delle opere più difficili sia per chi le deve mettere in scena sia per chi deve vederla in teatro, questa ho idea starebbe tra le prime tre. Sovraccarico com'è il testo di simboli di natura pseudofilosofica (e si tratta pur sempre di simboli riferiti a cosucce tipo cristianesimo, consorterie religioso-militari, inconscio, crescita individuale, la Mamma, la Donna, il Sesso, persino uno zinzino di metempsicosi), resta comunque aperta la questione del valore da attribuir loro - tanto? poco? niente? - e soprattutto del come trattarli (spiegarli? far finta di niente con luci astratte dietro al solito paravento del "tanto c'è la musica", che in effetti e meno male che c'è? sostituirli con altri meno imbarazzanti e, diciamocelo, un tantino più interessanti?): avendo anche in mente che, ci credesse davvero o no, Wagner dichiarò a chiare lettere di considerarli materiale squisitamente teatrale nonostante l'evidenza del loro configurarsi piuttosto come autobiografia psicanalitica.

La storia scenica di Parsifal, in definitiva, si distende sul ventaglio di risposte a questi pochi quesiti: e la stragrande maggioranza hanno scelto di lasciar tutto com'è, squadernare i simboli in quanto elementi narrativi, e lasciar decidere il loro significato a chi ascolta. E tuttavia, oggi è proprio difficile stare immobili e compresi di sacro furore speculativo davanti alla solita coppa-insalatiera che s'illumina di rosa confetto, al cignone morto, alla colombella salvatrice, agli scudieri che fanno i dispetti a una barbona, a una vamp che seduce un ragazzino (di solito un cinquantenne di un quintale e mezzo) dicendogli dammelo dammelo che così mamma è contenta, d'un cattivone che piomba tra loro con lancia in resta come Sandokan ma in nome d'un Principio Superiore. Non si può più. Nemmeno al Metropolitan (e forse forse, neppure alla Scala). Allora: o si cambia tutto proponendo una storia diversa come a Bayreuth hanno fatto Schlingensief ed Herheim; oppure si gattopardeggia, ovvero si lascia tutto com'è ma si fa finta si sia cambiato tutto perché presentato in modo diverso, più accettabile perché visivamente più attinente a sensibilità, abitudini, senso visivo, odierni. Che per l'appunto è quanto fa Francois Girard, regista canadese noto finora soprattutto per il suo film II violino rosso con le musiche di Corigliano suonate da Joshua Bell.

Via le cose più imbarazzanti come la coppona e in generale la Sacra Agape, ma si tiene il sangue. Una caterva di sangue, a rappresentare una Colpa Collettiva. Che quale sia, importa poco. C'è stata, c'è ancora e riguarda tutti: un sipario riflettente informa fin dall'inizio che in scena ci siamo anche noi. Viene in mente Nietzsche, se guardi a lungo nell'abisso, l'abisso guarda dentro di te. Colpa che ha isterilito la terra, resa un mondo post-apocalittico simile a certi paesaggi africani arsi e spaccati da una siccità non causata dal meteo bensì dalla mancanza della reciproca comunione uomini-donne: gli uomini (riuniti in circolo, forse allusione alla "ruota della sofferenza" cara al buddismo) pregano nella speranza che quest'aridità cessi, ma riescono a farlo con una mano sola, l'altra essendo loro impedita dall'assenza dell'altra metà del cielo. Cielo, coi suoi pianeti rotanti che incombono e s'eclissano entro luci sempre cangianti ma sempre cupe, che scorgiamo nelle spettacolari, modernissime proiezioni di Peter Flaherty. L'espiazione sarà possibile solo allorché lancia e coppa — maschile e femminile — saranno nuovamente riuniti: onde viaggio all'interno della colpa ovvero dentro la spaccatura della terra (il second'atto, su un letto da cui cola sangue e circondato sempre da Fanciulle Fiore impegnate in coreografie che alludono di continuo alla croce) per riuscire a comporre la fenditura che ha diviso in due la terra, su cui è scorso il sangue che alla fine tornerà acqua e, in quella ritrovata "terra di mezzo", uomini e donne si ricongiungono in una reciproca comprensione che rappresenta quel supremo atto d'amore unico possibile redentore d'ogni colpa.

Nulla di nuovo, insomma (tanto per dire, la metafora uomo-donna l'aveva mostrata anche Denis Krief alla Fenice, con analoga parsimonia simbologica e assai maggiore parsimonia di mezzi), e in fin dei conti semplice, quantunque non semplicistico. Riuscire però a tenere assieme questo coacervo di bignamino scolastico di filosofia e mercatino di tutt'un po' - dal buddismo in salsa schopenhaueriana al catechismo spruzzato d'antisemitismo, all'ecologismo in salsa spicciola, al puritanesimo che sempre assilla chi troppo mostra di averne in uggia - accettandone i muri narrativi portanti senza stravolgerli perché riassorbiti nel racconto: questo, che significa poi teatro pragmaticamente inteso perché tiene conto del pubblico (e perché, forse Wagner no? ma si faccia il piacere!), è cosa tipicamente americana. Evviva gli americani. Giacché vediamo un Parsifal messo in scena tenendo conto di quanto oggi la nostra sia una civiltà soprattutto d'immagini, e di quanto conti - a teatro - raccontare. Dunque recitazione: modernissima nell'impiego d'ogni possibile mezzo fisico mimico e in genere posturale, ma soprattutto marcatamente comunicativa, in virtù anche delle riprese della Sweete, superlative non solo di per sé ma per la natura squisitamente televisiva, cioè a dire narrativa, in cui sono organizzate, da vero e proprio sceneggiato di gran classe. Cosa riesce a fare ad esempio Peter Mattei nel comporre una vera e propria sinfonia del dolore (esibito fino all'impudicizia, senza il minimo desiderio d'interiorizzarlo dandogli un significato trascendente, ma con addirittura inediti tocchi d'infantile rivalsa: sì, ci sono cascato, vi ho rovinati tutti, ma soffro così tanto che di voi m'importa niente), getta su Amfortas luce completamente nuova ma soprattutto d'impatto teatrale portentoso. Se si aggiunge un canto che sormonta con estrema disinvoltura ogni difficoltà di tessitura, nel contempo scavando ogni parola con l'impiego d'una tavolozza cromatica sterminata: ecco che con questo video la storia interpretativa del personaggio gira un tornante epocale e, di fatto, ricomincia da qui.

Considerazioni analoghe per Jonas Kaufmann, il Parsifal dal quale oggi - forse persino più di Lohengrin - si giudicheranno tutti gli altri. Personaggio più difficile, il suo: quasi tutto il prim'atto e larghissima parte del terzo vanno costruiti col gesto e con la mimica non solo facciale ma di tutto il corpo. Come riesca a esprimere una sofferenza non meno acuta di quella di Amfortas ma -questa sì, non si può fare altro - tutta interiore, cupa, ogni tassello di comprensione un uncino che affonda nella carne: un capolavoro cui scavo della parola musicale, gesto, atteggiamento, e sopra ogni altra cosa sguardo, concorrono in pari misura.

Di fronte a due siffatti monumenti, difficile non sfigurare: dire che nessuno scalpita più di tanto, è dire abbastanza. Pape, con la sua voce ampia, splendida, esaltata da un legato superbo, cesella pure lui ogni parola e il suo Gurnemanz, condotto e tenuto al grado minimo di pontificante pedagogo, non solo non annoia ma interessa. Klingsor, invece, non annoia quasi mai però quasi sempre non si capisce che personaggio sia: qui Evgeny Nikitin (tatuaggi nazisti o no, del politically correct francamente non se ne può più) gli dà fisionomia di potentissimo rilievo. Katarina Dalayman ha il problema di trovarsi in gola un gran brutto timbro: voce però ampia e sonora, emessa piuttosto bene, che onora tutte le richieste vocali d'una parte difficilissima, ma tanto vocalmente quanto scenicamente pattina un po' troppo alla superficie del personaggio (specie dovendo fare i conti coi due mostri che le stanno accanto), e se riesce a dargli comunque un'attendibile fisionomia, è soprattutto merito della direzione. Giacché resta fermo che perno decisivo di questa sensazionale riuscita è Daniele Gatti. Nervature ampie, possenti ma allo stesso tempo agili, dove si scarica la forza d'un edificio musicale in ogni giuntura pienamente leggibile. Cura estrema nell'indagare la microstruttura timbrica e armonica seguendo però sempre la bussola del teatro, ovvero evidenziando di ciascuna il suo inserirsi entro una macrostruttura tenuta in tensione narrativa costante. Quella in cui serrate urgenze e maestose dilatazioni melodiche sono sistole e diastole d'un flusso teatrale sempre teso e "in avanti", affatto privo sia d'ogni cincischio calligrafico riferibile sia ai tipici schianti tellurici del Wagner tanto effettistico quanto vuoto di reale contenuto drammatico, sia alla polenta meditabonda del vecchio teatro filosofico tutto immobilismo pensoso avvolto da luci metafisiche: la tensione, insomma, di chi il teatro musicale lo realizza certo con la musica, ma anche col teatro. E dunque, un grande Wagner. Di più. Il Wagner migliore che si sia ascoltato da moltissimo tempo, oltre che, naturalmente, il Parsifal più compiuto ed emozionante dell'intero catalogo discografico: e l'aggettivo "emozionante", riferito a un'opera come questa, a me pare costituisca il discrimine decisivo.






 
 
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