Opera Disc, 3 Agosto 2016
Pietro Bagnoli
 
Fidelio
 
 
Spettacolo piuttosto astruso, questo del dotato Guth, che si lascia prendere la mano come ogni tanto gli capita da simbolismi di difficile interpretazione, di nuovo conio o non.
Fra quelli di vecchio conio c’è Nadia Kichler, la ragazza bellissima che si esprime col linguaggio dei gesti, non so se perché realmente sordomuta, che già compariva nella drammatizzazione del Messiah, e che qui è una specie di “doppio” di Leonore con cui dialoga (ovviamente senza parlare) in continuazione. Cosa si dicano, non è chiaro. C’è un doppio anche per Pizarro, ma in questo caso non è sordomuto, è solo un mimo.
La nuova idea è il monolito nero che compare in un angolo della sobria stanza dove succede tutto; ma non è chiaro cosa significhi.
È il simbolo della prigione?
È l’abisso della coscienza di ognuno?
È il paradigma dell’incomunicabilità, (quasi) nuova frontiera del teatro di regia tedesco?
Ha lo stesso significato di quello di “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick?
Francamente non lo riesco a capire, ma il punto non è nemmeno questo.
Quello che mi sembra manchi in questa regia è proprio la linea che unisca i puntini per far saltare fuori il disegno, come nella “Settimana enigmistica”; sembrano tanti spunti assemblati da un bravo artigiano, quale Guth effettivamente è, ma senza il “tratto di penna” che normalmente c’è sempre nelle sue regie.
Ora, non voglio pensare che il doppio di Leonore che si esprime a gesti sia una parafrasi della sordità di Beethoven, come adombrato da qualche critico particolarmente fantasioso; ma è comunque difficile assemblare la coscienza sordomuta con il pozzo nero dell’anima che dovrebbe essere rappresentato dal monolito, in un contesto spoglio ed essenziale che dovrebbe rievocare quello che lo scenografo (e costumista) Christian Schmidt descrive come “il salone dell’inconscio di Freud”.
E poi i dialoghi. Siamo pur sempre in un singspiel, in cui i dialoghi rivestono un ruolo fondamentale.
E invece no. Niente.
Il regista li taglia e li sostituisce con rumori, gemiti, suoni affidati al rumorista (o meglio, “sound designer”) Torsten Ottersberg. Non sono pregiudizialmente contrario: l’appassionato conosce bene la vicenda di Fidelio, sono ammissibili queste variazioni sul tema. E, almeno entro certi limiti, questi sussurri hanno il loro fascino. Ma si tratta di un fascino puramente estetico, senza un reale significato drammaturgico.
Sono tante idee, alcune interessanti, ma che veramente non sembrano collegate fra di loro; e il contesto è davvero astruso, difficile da decifrare.
La bellezza dei movimenti, dei tagli di luce, delle immagini è formalmente elegante, ma non ha un corrispettivo drammaturgico.
E alla fine Florestan muore senza che nessuno capisca bene il perché.

A spettacolo astruso corrisponde esecuzione musicale che – a parte un’eccezione – sta fra il mediocre e il pessimo.
L’eccezione è ovviamente Kaufmann, che si ritaglia la solita performance paradigmatica, stratosferica, semplicemente perfetta. In questa parte, apparentemente così lontana dalla sua vocalità, l’unico che gli stia alla pari è Jon Vickers, un altro che con la vocalità di Florestan c’entrava solo quel tanto che lo accomunava ad altri suoi colleghi, anch’essi tenori wagneriani: poco. Però entrambi cavano una prestazione paradigmatica. Kaufmann, vocalmente a postissimo, parte con una splendida messa di voce su “Gott welch dunkel hier” e lavora poi di conseguenza sul resto della performance. Splendido anche il “Namenlose freunde” affrontato con squillo helden. Ribadisco quanto già detto in precedenza: anche se ha già visto i suoi giorni migliori, ancora oggi in questo repertorio non ha rivali.
Davvero poco interessante quello che resta di Adrianne Pieczonka, ormai anche anagraficamente al di fuori del suo periodo migliore. La voce è sforzatissima: difficile immaginare un “Abscheulicher!” più faticoso e problematico di questo, anche pensando a uno dei tanti mezzosoprani che hanno impropriamente gestito questo ruolo.
Ma sono quisquilie a confronto di quello che fa sentire Konieczny, con la sua vocalizzazione centrata perennemente sul fonema “oe”, la sua emissione bieca e trucibalda, totalmente mancante di un qualsivoglia stile. Per me è incomprensibile che un cantante così sia regolarmente presente su tutti i più importanti palcoscenici del mondo.
Discreti gli altri, ma senza punte di particolare eccellenza.
Coro puntuale e preciso.
Infine due righe sulla direzione. Anche qui, siamo decisamente nell’ambito del mediocre, da accompagnatore nel senso più classico del termine. L’ouverture fila via nell’indifferenza totale; non c’è un accompagnamento che non sia metronomico e triste. C’è persino una Leonore III la cui inutilità ai fini drammatici non mi è mai parsa così evidente come oggi.

Spettacolo quasi totalmente mancato, con la parziale luminosa eccezione di Kaufmann.
Non basta.
 






 
 
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