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L'ape musicale, 15 Dicembre 2021 |
di Luigi Raso |
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Verdi: Otello, Teatro San Carlo Napoli ab 21.11.2021
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Il senso del teatro |
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Fa riflettere, non lascia indifferenti, compie, insomma, il suo dovere di non rassicurare ma di scuotere e turbare, la visione di Otello proposta da Mario Martone in stretta collaborazione con Michele Mariotti, ispiratissimo sul podio, e con un cast eccellente capitanato da Jonas Kaufmann, Maria Agresta e Igor Golovatenko. Uno spettacolo vitale anche perché divisivo.
NAPOLI, 14 dicembre 2021 - All’inizio disorienta, poi interroga e fa
pensare; infine emoziona la rivisitazione registica dell’Otello di Giuseppe
Verdi messa in scena da Mario Martone, seconda inaugurazione della Stagione
lirica 2021 – 2022 del Teatro San Carlo (la prima apertura, lo scorso
ottobre, con La bohème. Leggi la recensione). Delle contestazioni della
prima al regista si è parlato e scritto molto nei giorni successivi; ora, al
termine dell’ultima replica, proviamo a tracciare un bilancio di questo
discusso spettacolo, che ha diviso, e non poco, il pubblico, in teatro e
soprattutto nel foyer virtuale dei social.
Dopo aver visto - e più di
una volta - questa produzione, ci schieriamo senza riserve dalla parte di
chi ha individuato nella regia di Martone un’originale, suggestiva e,
soprattutto, acuta riflessione sull’essenza del dramma verdiano (e prima
ancora di Shakespeare). Se il più nobile fine del teatro è quello di
interrogarci, provando a suscitare risposte, indurci alla κρίσις (crìsis),
nell’accezione semantica greca di “scelta, decisione, distinzione”, questo
spettacolo è un esempio di vero teatro.
La visione teatrale di
Martone, coadiuvata dalle appropriate scene di Margherita Palli (essenziali,
basate su videoproiezioni riproducenti bellissimi scenari mediorientali,
cieli stellati, rovine romane nel deserto; poi ci sono ospedali da campo,
tende e container militari), dai costumi - divise militari contemporanee -
di Ortensia De Francesco, il tutto impreziosito dal gioco di luci e video
rispettivamente di Pasquale Mari e Alessandro Papa, è l’attualizzazione del
femminicidio shakespeariano: Martone ci spiattella in faccia, senza fronzoli
e con tutta la brutalità del gesto, un vile uxoricidio contemporaneo; ci
trascina davanti ad uno specchio nel quale noi contemporanei proviamo
vergogna a guardarci.
Lo scopo del regista napoletano è quello di
indagare il presente e scuoterci e, forse, in ultimo, scandalizzarci con la
crudezza della storia raccontata. Insomma, niente di più e di meno di ciò
che il teatro di Verdi persegue (o dovrebbe perseguire): far riflettere,
interrogare, scandalizzare.
Non è – né vuole assolutamente esserlo –
uno spettacolo rassicurante. Tutt’altro. Gli atti III e IV sono due pugni
nello stomaco il cui dolore si avverte a lungo. Eliminati gli orpelli
quattrocenteschi che fanno da contorno al dramma, Martone ci racconta una
storia dei nostri giorni, di ufficiali impegnati in una missione di pace in
un non identificato paese mediorientale, dove serpeggiano i dèmoni sempre
contemporanei dell’invidia, della gelosia, dell’odio, della menzogna e della
falsità.
E dunque via il Leone di San Marco, via il fazzoletto, via
il sontuoso baldacchino nel quale tante volte abbiamo visto Desdemona
strangolata, per lasciar spazio a ufficiali in tuta mimetica, ambasciatori
veneziani in giacca e cravatta, accampamenti militari, infermerie da campo,
mitra, casse di birra, belle ragazze provocanti e disponibili che durante
Fuoco di gioia sanno come tener desto il morale della truppa, rovine romane
nel deserto mediorientale. L’eroismo e gli azzimati ufficiali cedono il
passo alla quotidianità, in un contesto che ricorda quello di missione di
pace (peacekeeping, direbbe chi vuol essere cool), come a ricordarci che
quei mali non si annidano solo tra gli eroi della tragedia del Bardo, ma tra
persone comuni, nel nostro presente e non in un passato lontano quanto
suggestivo. Durante l’uragano iniziale i militari di Otello salvano dal mare
in tempesta un gommone stracarico di migranti alla deriva. Jago tesse la sua
trama tra tute mimetiche e kalashnikov pronti a sparare in aria a mo’ di
festeggiamento; Otello e Desdemona consumano la loro notte d’amore in una
tenda militare, sovrastata del cielo stellato d’oriente.
È il
personaggio di Desdemona – ed è questo uno degli aspetti più interessanti
della rilettura di Martone – a subire una rivoluzione copernicana nella sua
concezione: non è rappresentata quale donna dimessa e sottomessa al volere
di Otello. Qui Desdemona è donna dalla personalità energica, che ha un
rapporto paritetico con il marito, una soldatessa che sa tener testa ad
Otello, che lotta fino all’ultimo, soprattutto fisicamente, contro il marito
uxoricidia e il proprio dys-dàimon (dys, negativo; dàimon, destino).
Nel corso dello spettacolo ci si accorge che Mario Martone di Otello non fa
che esaltare gli elementi costitutivi della tragedia: è una storia di
gelosia e invidia, follia e solitudine. E tutto ciò c’è, e si vede. Nessun
oltraggio a Verdi, come qualcuno potrebbe lamentare. E pazienza se nel
finale Otello non ha accanto Desdemona fredda, muta e bella: quella di
Otello è la morte di un uomo solo, precipitato dall’invidia e dal sospetto
in un abisso di solitudine. Desdemona, strangolata e portata via su una
semplice barella, diviene agli occhi di Otello morente un’idea lontana e
ormai svanita di amore. La follia di Otello ha distrutto un sogno; Desdemona
non può essergli vicina nell’ultimo istante, neppure da cadavere. Otello è
solo più che mai.
Scelte registiche coerenti e conseguenziali con la
scelta di fondo, quella di raccontare, attualizzandola, una tragica vicenda
di amore, gelosia, invidia, calunnia e morte.
Non ci scandalizziamo,
quindi, per il fazzoletto sostituito da un foulard, per i mezzi militari in
scena, per Desdemona che, invece di bamboleggiare in ubertosi giardini
ciprioti, si prodiga a curare profughi ammalati in un ospedale in un
ospedale da campo; ammiriamo la trovata registica secondo la quale,
all’inizio del IV atto, sul meraviglioso assolo del corno inglese vediamo
Otello chiamato a fornire risposte ai messaggeri della Serenissima per le
pubbliche escandescenze del finale dell’atto III; che gli ultimi momenti di
vita di Desdemona si consumino in uno spartano container militare di due
stanzette, con armadietto, TV e una squallida branda miliare. Come in un
film thriller Otello si introduce nella stanza di Desdemona; si siede sul
letto per interrogarla e, del tutto privo dell’allure del militare valoroso,
appare per quel che è, un vile uxoricidia, dilaniato da un sospetto di
gelosia che gli ha obnubilato ogni facoltà mentale; le comunica la sentenza
di morte; Desdemona combatte contro il suo assassino, gli punta contro la
pistola d’ordinanza in precedenza nascosta sotto il cuscino, con tutta la
sua forza tenta di allontanargli le mani dalla bocca e dal collo; ma
soccombe e muore strangolata. Da brividi, un potentissimo pugno dello
stomaco.
La salma di Desdemona esce dalla scena del crimine in
barella, rapidamente e senza enfasi, proprio come una delle tante donne
ammazzate dai propri compagni e di cui purtroppo sono disseminate le
cronache. Otello, come detto, muore solo; la follia omicida gli nega anche
di poter dare il bacio estremo a Desdemona: una scena, quella finale, tanto
infedele alla didascalia del libretto di Boito quanto potentemente
drammatica e dall’impatto emotivo indelebile.
E quando cala il
sipario il pubblico è attonito.
Il teatro ha assolto al suo compito:
ci ha scossi, mostrandoci la disumanità che alligna nel quotidiano che
invece fingiamo essere rassicurante e confortevole.
A mancare in
questa regia, ad onor del vero, rispetto all’originale di Shakespeare e alla
rielaborazione di Boito, è solo l’elemento dell’alterità di Otello, il suo
essere moro in un mondo di bianchi, il suo essere condottiero valoroso al
servizio di una potenza occidentale e, ciò malgrado, rifiutato. Il demone
del razzismo, così presente nella ambientazione della Cipro del
Quattrocento, purtroppo ad oggi ancor non è eradicato. Siamo sicuri che il
tatto registico di Martone, nell’attualizzare la vicenda, se avesse voluto,
avrebbe saputo affrontare articolatamente anche questo aspetto. Nelle note
di regie incluse nel programma di sala Martone si limita ad affermare che
“Ma se il fatto che Otello sia straniero conta certamente in Shakespeare,
oggi mi rendo conto che nell’opera di Verdi e Boito, a parte alcuni passaggi
del libretto, la questione non è un tema e che ben altro vi si trova,
scavando nel rapporto tra uomo e donna”.
Ci auguriamo che questo
Otello, intelligente e originale per scelte registiche, pregevole per la
recitazione di tutti, per l’attenzione ai particolari (la mano di Martone
profondo conoscitore delle dinamiche teatrali si intravede in ogni movimento
degli artisti e del coro, non avendo lasciato nulla al caso) sia stato
videoregistrato dal Teatro: sarebbe un peccato non poterlo rivedere.
Ma sarebbe riduttivo limitarsi a decantare l’aspetto registico, in presenza
di una parte musicale ricca di spunti e pregevolissima da tutti i suoi punti
di vista.
Partiamo dalla direzione ispiratissima, dalla trascinante
forza drammatica di Michele Mariotti, il quale, dopo il successo in Aida
della scorsa estate in piazza Plebiscito, sceglie la più confortevole sala
del San Carlo per concertare, e per la prima volta, Otello.
Quella
del direttore pesarese è una lettura che coniuga rigore e fantasia: una
conduzione trascinante, perfettamente aderente alla drammaturgia, tesa, ma
che esalta il lirismo presente nella partitura (meraviglioso il manto
orchestrale steso sotto la frase “è il fazzoletto che le donai pegno primo
d’amore” pronunciata da Kaufmann con far estatico e malinconico!), i colori
(la lugubre, plumbea entrata di Otello nel IV atto), il trionfalismo sonoro
dell’arrivo dei messaggeri veneziani, il corrusco e folgorante uragano
iniziale. Grazie a un’orchestra in stato di grazia, malgrado a ranghi
ridotti (sì, sempre a causa del Generale Covid..), la direzione di Mariotti
è un florilegio di sonorità ricercate, di colori, fluttuanti all’interno di
una dinamica mobile, impreziosita da qualche rubato sempre appropriato.
Una conduzione energica, palpitante, “ansante”, per adoperare un
participio del libretto, (si pensi introduzione orchestrale duetto della
Pleiade) che sfuma nel lirismo più intimo dell’accompagnamento della Canzone
del salice e dell’Ave Maria e nelle carezze e fendenti orchestrali che
accompagnano "Niun mi tema". Eppure Mariotti, anche nelle oasi più liriche,
non rinuncia alla coerenza e alla tenuta drammatica, imprimendo tensione e
nerbo alla scrittura verdiana, (si pensi all’arroventato duetto Jago –
Otello nell’atto II, all’incandescente e solenne concertato che chiude
l’atto III, giusto per limitarci a due esempi).
Sugli scudi il Coro
del San Carlo, diretto da José Luis Basso: perfetto per intonazione,
idiomaticità, compattezza, bellezza e potenza sonora - malgrado i coristi
càntino con la mascherina! -, effetti timbrici delle varie corde, in questa
prova condotte ad unità stupefacente. Ma a stupire, e non poco, è il fuoco
di passione (“di gioia” potremmo dire, trattandosi di Otello), quel flusso
di entusiasmo, di effervescenza sonora che emana l’intera compagine e che la
guida del neo direttore José Luis Basso ha saputo accrescere e valorizzare.
Impressiona la potenza sonora emanata dall’uragano iniziale, fa saltare
dalla sedia il "Fuoco di gioia" e il Brindisi di Jago; è avvolgente, sin
dall’"Evviva il leon di San Marco!", il concertato finale del III atto. Il
Coro ha contribuito, e in modo determinante, all’ottima riuscita dello
spettacolo, il quale poggia su di esso come pilastro essenziale. Date queste
premesse, aumenta la curiosità di ascoltare la compagine corale nelle
numerose sfide che le stagioni, liriche e sinfoniche, le riservano.
Bene, come ci ha costantemente abituato, il Coro di Voci Bianche, ben
integrato con quello degli “adulti” nell’atto II, guidato da Stefania
Rinaldi.
Per quanto i fili della trama siano mossi da Jago e malgrado
la difficoltà della parte, Otello è opera fetish per i tenori o, meglio, per
un certo tipo di tenori. Quali caratteristiche, vocali e interpretative,
debba avere oggi la voce per Otello è argomento complesso che non possiamo
affrontare in questa sede. Qui ci limitiamo a dire che per questa produzione
il San Carlo schiera un Otello di lusso, Jonas Kaufmann.
Tralasciamo
volutamente il discorso su tecnica, impostazione, su colore e peso vocale
che, a dispetto della ormai lunga carriera di Kaufmann, restano argomenti
irriducibilmente divisivi (e, tutto sommato, noiosi, se avulsi dal risultato
artistico finale), per provare a descrivere, liberi da paragoni
irrealizzabili e al giorno d’oggi improponibili, l’interpretazione di questo
Otello. Hic et nunc l’Otello a cui dà voce e corpo Jonas Kaufmann è un uomo
annichilito dai demoni della gelosia e del sospetto: è un uomo che vive
delle contraddizioni di noi contemporanei, vittima di odio e allo stesso
tempo spietato carnefice della propria consorte. Dopo l’incisivo "Esultate!"
Kaufmann opta per un Otello lirico e sinceramente innamorato nel I atto,
cesellato, che traduce il proprio amore per Desdemona in un canto sfumato,
dove abbondano mezzevoci, smorzature e colori. Nel II atto, quando la
gelosia si è ormai impadronita della sua suscettibile psiche, l’Otello di
Kaufmann diventa arroventato nelle intenzioni e nella vocalità, superando
con onore le forche caudine delle quali è disseminata la temibile scrittura
vocale del II atto, nonché quelle della poderosa orchestrazione che il genio
di Verdi gli scaglia contro nel finale d’atto. Interprete attento,
analitico, si cala in una recitazione efficace, esasperando, così come
voluto da Martone, i tratti di follia e cieca violenza che prendono il
predominio nel militare innamorato, devoto valoroso e stimato. Se "Dio! Mi
potevi scagliare" è sfumato e cesellato come un Lied tedesco, il suo "Nium
mi tema" mescola sussurri, singhiozzi, mezzevoci (personalissime, come
sempre per tecnica, ma pur sempre suggestive) e rimpianti: una trenodia
rivolta alla visione di Desdemona ormai perduta e trasfigurata: la gemma di
una interpretazione superba, che, non può lasciare indifferenti. In
definitiva, una prova magistrale quella di Jonas Kaufmann, per aver saputo
rendere le varie sfaccettature psicologiche del complesso personaggio di
Otello, attraverso una variegata gamma di accenti e inflessioni vocali e,
aggiungiamo, malgrado una vocalità che indubbiamente inizia a difettare
nello squillo e talora di peso specifico quanto a volume.
Il tenore
bavarese disegna un Otello che, anche per la recitazione, definiremmo
“nevrotico”, figlio dei nostri tempi: se ogni epoca ha avuto il suo Otello,
quello degli anni ‘20 del terzo millennio è quello di Jonas Kaufmann. Si
potrà obiettare che i suoi mezzi risultino un po’ appannati nel corso della
serata, soprattutto a causa di un po’ di stanchezza vocale, percepibile in
tutto il cast dopo ben sette recite consecutive (sei per Kaufmann); ma, in
ogni caso, dove non arrivano i mezzi naturali, sono l’intelligenza e la
musicalità dell’artista a supplirvi egregiamente.
Accanto all’Otello
lacerato e nevrotico di Jonas Kaufmann, Maria Agresta è una Desdemona
battagliera, una donna tenace che affronta il martirio con determinazione,
non prima di aver tentato di resistere e di opporsi, anche fisicamente, alla
furia distruttrice di Otello e del proprio destino. Il soprano italiano,
esperto della parte, grazie a una buona tecnica che consente di alleggerire
l’emissione canta infatti tendenzialmente molto bene: forgia ai suoi
desiderata una voce naturalmente corposa, ricca di armonici, molto ben
proiettata. È un fiume di voce il suo "E son io l'innocente cagion di tanto
pianto! Qual è il mio fallo?", mentre l’Ave Maria è una preghiera
sussurrata, smorzata benissimo, pervasa da convinta religiosità e dagli
oscuri presagi per la fine imminente. Ma i pregi dell’Agresta non si
limitano agli aspetti vocali: la concezione dell’energica personalità della
Desdemona concepita da Mario Martone, non sarebbe emersa compiutamente se il
soprano non fosse la convincente artista dominatrice del palcoscenico qual è
e non rendesse con naturalezza ogni gesto che la regia le richiede. Spolvera
e nasconde la pistola che nel IV atto punterà contro Otello con la
credibilità di un militare e la spontaneità di un’attrice da serie TV, lotta
fisicamente con Otello, nel finale dell’atto III, come un’esperta di arti
marziali. Insomma, è così calata nel ruolo di soldatessa che ne replica
perfettamente riti e movenze. L’Ave Maria è l’unico momento dello spettacolo
che riceve applausi a scena aperta, preambolo dell’acclamazione finale.
A tramar la prova del peccato d’amor è lo Jago mellifluo, strisciante e
sibilante di Igor Golovatenko, dotato di mezzi vocali possenti per volume e
squillo, soltanto troppo chiaro nel timbro - soprattutto se paragonato con
quello di Otello - e talora con qualche nota del registro basso artefatta e
sfuocata, ma raffinato fraseggiatore, interprete analitico, attento al peso
della singola parola e delle più piccole inflessioni verbali e vocali della
complessa parte di Jago. Golovatenko rende in maniera convincente quella
michelangiolesca incarnazione del Male che è il personaggio di Jago: restano
impressi la plastica autorevolezza di un Credo ferventemente e
sfacciatamente nichilista nel suo trionfo di suoni poderosi, il Sogno dal
fraseggio variopinto per dinamiche e colori, sussurrato come una sottile
calunnia, concluso con l’esplosione mefistofelica di “…lo vidi in man di
Cassio!”. Considerato che Golovatenko debutta con questa produzione nei
panni di Jago, la sua è una prova di estremo interesse, da tenere d’occhio
per l’evoluzione interpretativa e vocale del complesso personaggio.
Tendenzialmente convincente Alessandro Liberatore nei panni di Cassio: voce
dal bel timbro, ma talora con quale imprecisione nella zona più alta della
tessitura. A Manuela Custer è sufficiente la breve parte di Emilia per
dimostrare ancora una volta la propria statura di artista, raffinata,
convincente come cantante e come attrice. Impossibile immaginare un’Emilia
più appropriata per questo spettacolo, speculare, per determinazione e forza
interiore, alla Desdemona di Maria Agresta. Fa bene Matteo Mezzaro come
Roderigo e spicca per autorevolezza vocale e scenica il Lodovico di Emanuele
Cordaro. Chiudono degnamente il cast Biagio Pizzuti come Montano e Francesco
Esposito, artista del Coro, quale Araldo.
Al termine, un lusinghiero
successo per tutti: applausi prolungati benedicono uno degli spettacoli più
intelligentemente innovativi (e quindi divisivi; ma - grazie al Cielo! - la
lirica è viva anche perché genera irriducibili fazioni) visti al San Carlo
negli ultimi anni, una sintesi interessante tra teatro e musica, nella quale
svetta il lavoro di Orchestra, Coro, tecnici di palcoscenico e interpreti.
Date le premesse, ci auguriamo di godere di spettacoli di questo stesso
valore artistico nel prosieguo della Stagione.
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