|
|
|
|
|
Fermata Spettacolo, 30 Novembre 2021 |
di Luigi Paolillo |
|
Verdi: Otello, Teatro San Carlo Napoli ab 21.11.2021
|
Otello e la morte degli ambigui ideali del nostro tempo |
|
Al Teatro San Carlo di Napoli parte la nuova Stagione con un Otello
d'eccezionale fattura, diretto da Michele Mariotti, regia di Mario Martone,
con Jonas Kaufmann, Maria Agresta, Igor Golovatenko
“Il
grande problema della messinscena di Otello è che ci vuole un tenore in
grado di cantarla, e non ce ne sono molti al mondo: Kaufmann è naturalmente
richiestissimo, Lissner aveva questa possibilità e l’ha colta”. Così Mario
Martone in un’intervista di qualche giorno fa, tornato a Napoli e al suo San
Carlo dopo quindici anni, dalle Nozze di Figaro, che concluse una mozartiana
Trilogia Da Ponte nel 2006. Perché poi, hai voglia a girarci attorno, la
vexata questio resta sempre tale a se stessa: ogni volta che torna in scena
quest’opera, occorre render ragione di ciò che comunemente si dice, l’esser
cioè Otello l’Everest del repertorio tenorile, certo uno dei ruoli più
difficili che la storia della lirica abbia lasciato in eredità agli abitanti
del secolo presente, fin dal primo interprete, quel Francesco Tamagno che
appartiene piuttosto al mito che alla storia del lirico cantare.
Ma,
si badi, l’interesse della questione, che potrebbe apparir futile e di lana
grossa, sta nel fatto che la difficoltà vera dell’interpretazione non
risiede dove comunemente la gente, anche il melomane incallito, pensa che
sia. Certo, è vero, è richiesta una voce titanica che deve saper e poter
esploder emotivamente quando occorra, e in questo taluni grandi interpreti
del passato son stati maestri, si pensi a Mario del Monaco o Ramón Vinay; il
difficile, tuttavia, non sta qui, ma nell’aver creato Verdi un personaggio
che si muove – vocalmente, drammaturgicamente, psicologicamente – da quelle
gigantesche altezze al pianissimo cantare, con tutto – e proprio tutto –
quel che sta nel mezzo, e se è certo possibile trovare tenori di gran fiato
che fanno esplodere la voce per più di due ore, come quelli citati, molto
più complesso è trovarne di quelli che sanno sostenere questa spiccata
dicotomia del linguaggio musicale e teatrale. Del resto, anche il profano,
basta dia uno sguardo alla partitura e s’accorgerà subito di quanto siano
molto più frequenti i passaggi in cui domina il piano, addirittura il
pianissimo, piuttosto che il forte o il fortissimo: naturalmente ci sono
tenori che hanno saputo cercare e trovare questo equilibrio difficile e, in
qualche misura, instabile, mi vengono due nomi anche qui, Jon Vickers e
Placido Domingo.
Poi, naturalmente, c’è Jonas Kaufmann. Se qualcuno
si fosse chiesto come avrebbe risposto all’appello questo tenore ormai
celeberrimo, a 52 anni e dopo aver superato i noti problemi alle corde
vocali, avrebbe avuto ieri sera una risposta clamorosa, fin dal grido di
vittoria che apre l’opera, l’Esultate fin troppo stereotipo d’un certo modo
d’ascoltare l’opera: di lì Otello-Kaufmann cresce e muta fin quasi a farsi
sorta di metempsicosi teatrale – se esistesse – in cui un personaggio,
diventato, col passar dei secoli, emblematico per la sua gelosia, tanto da
proverbialmente identificarla, riacquista, grazie all’interprete, carne e
sangue e ossa – e, nella fattispecie, soprattutto voce – di uomo autentico,
con le sue inesplicate contraddizioni, le sue tenerezze e miserie, entrambe
indicibili nella loro potenza e nel cesello che scava fin nel profondo.
Così, man mano che il tempo passa, di scena in scena, ti ritrovi di
fronte ad un personaggio dalle molte complessità, non più appiattito
sull’abusato archetipo del moro – o mediterraneo – geloso, lo vedi passare
da spavaldo eroe a comandante serio e responsabile a marito innamorato, il
tutto condito d’una buona dose d’ambiguità, e, in seguito, quando la sua
instabilità sempre più si definisce e diventa più pronunciata, crescendo
come una malabestia dall’interno, lo vedi (e lo senti) alternare un tono
teso e intenso di rabbia e certezza tutt’uno a una voce meno definita, più
brunita e piena di dubbio – a volte quasi tocchi con mano la sottile
metamorfosi tra il bene e il male che sotto il tuo sguardo letteralmente
s’affrontano nell’intimo del personaggio, fino alla fine, amara e tormentosa
nella sua disperata solitudine.
Kaufmann è probabilmente uno degli
artisti più dotati di magnetico allure, fascino disinvolto che deve alla
perfetta tecnica e al preciso controllo della sua voce che gli permette di
far con essa qualsiasi cosa, senza apparente difficoltà, facendoti sembrare
naturale ciò che in altri comporterebbe una eccessiva e disturbante carica
di artificiosità. E questo è particolarmente evidente nei passaggi più
lirici: Già nella notte densa, in duetto insieme ad una pressoché perfetta
Maria Agresta, risulta, alla fine, inaudito per l’eleganza e la compostezza
con cui riesce a gestire il canto, cosa impossibile per voci più pesanti,
come pure il bellissimo e atroce finale, Niun mi tema da altezze siderali,
mentre, rispetto allo standard eccelso, Dio, mi potevi scagliar, mi è parso
in eclissi come la scenografia scelta per quel momento.
Di un tale
Otello, Igor Golovatenko è perfetto contraltare negli indigesti panni
dell’onesto Jago: del baritono russo avevamo già detto, a proposito del
Germont nella Traviata del Wiener del marzo scorso, del timbro vellutato da
gran baritono verdiano, intonazione perfetta, potenza che sembra infinita,
fraseggio impeccabile, buona interazione con gli altri cantanti e,
soprattutto, capacità di trasmettere carattere ed emozione in ogni nota. Ci
era sembrato, quel personaggio di solito antipaticissimo e anaffettivo,
superare la rigidità e la freddezza per lasciarsi andare senza remore
all’emozione. Ma, certo, in quel caso, costretti allo streaming per gli
effetti della pandemia, potevamo aver preso lucciole per lanterne, qui,
nella vetusta sala del mio bel San Carlo, nella costruzione dell’infido per
eccellenza, di cui nemmeno lui stesso si fiderebbe, lo vediamo provare alcun
timore di suscitar antipatia, senza tuttavia cadere nel cliché abusato e un
tantino datato dell’incarnazione demoniaca fin de siècle escogitata da
Boito, per restituire piena cittadinanza drammatica di vero antagonista
dell’eroe – fino a quel punto e in apparenza – puro e senza macchia: perché
il “buonismo” di Otello fedelmente si rispecchia del “diabolico” dell’altro
non essendo il primo che parvenza del secondo e viceversa. Così, risulta il
suo Credo decisamente inquietante nell’umanissima malvagità che lo
caratterizza, nel suo deciso etichettare come buonismo ipocrita ogni atto
generoso o addirittura eroico. È facile riconoscere questo Jago, per chi ha
occhi per vedere e orecchie per sentire, certamente come nostro
contemporaneo, fuori dai fumi sulfurei dove il primo Novecento l’aveva
ingiustamente relegato.
In mezzo, tra i due – forse con maggior
risalto che al solito – Desdemona. Maria Agresta, con la complicità
consapevole di Martone, sa donare al personaggio un insolito spessore, tanto
che la sua figura risulta improvvisamente, come per incanto, balzare in
primo piano, quasi facendo impallidire i due coprotagonisti. E non è impresa
da poco. Scordatevi la Desdemona agnello sacrificale, questa non è la
gracile sposa bionda che l’aprile circonda, la figlia di papà che ha
sposato, magari con un colpo di testa, il suo innamorato, e non solo perché,
nella trasposizione martoniana, è guerriera pari al suo compagno comandante:
ha certamente un piglio più moderno, una donna che sa vivere in modo pieno
la sua femminilità, ha la consapevolezza della sua identità, che è fatta di
forza e gracilità insieme, pur mantenendo, il suo canto, pura bellezza
lirica, permettendo a chi siede in platea, di cogliere la pienezza del suo
amore per Otello; soprattutto, l’accento del regista è posto,
immancabilmente, su di lei, che vive la fragilità della linearità e costanza
del proprio sentire emotivo, rispetto alla morbosa esagitazione dell’uno e
dell’altro dei comprimari, fino a diventare lei stessa protagonista della
scena. Certo, è nella drammaticità, che più alto si leva il suo canto: nel
momento culminante del duetto del Terzo Atto, una Furia risuona veramente
come una sferzata, un suono effettivamente terribile, un lampo abbacinante
nella tempesta mentale che affligge Otello. E poi, naturalmente, la Canzone
del Salice, in cui la cantilena di ripetizioni e note ribattute induce uno
sconvolgente senso d’attesa e, insieme, d’ineluttabilità, e l’Ave Maria, a
mezza voce, anticamera della morte.
Michele Mariotti, al suo esordio
con questa partitura, si misura, nel dirigere l’Orchestra e il Coro –
guidato da José Luis Basso – del Teatro, nell’impresa di rendere i titanici
oricalchi con una compagine a ranghi ridotti e diradati e la perentoria
richiesta di salvare l’arca e la bandiera dalla voce attutita dalla
mascherina dei coristi – limiti posti dal Covid di cui, in verità, quasi non
ci si accorge – riuscendoci egregiamente e quasi miracolosamente. Se da un
lato, infatti, imprime un ritmo accelerato alla partitura, come un cuore
tachicardico per l’emozione, dall’altro cesella a meraviglia un Otello più
lirico che marziale, più intimo che urlato, in cui è possibile riconoscere
perfettamente, come in filigrana, ciò che il vecchio Verdi e il giovane
scapigliato in testa avevano, ricorrendo al Bardo: rinnovare l’opera italica
sollevandola dal marasma in cui era caduta dopo i romantici splendori. E
appunto quest’è Otello, grandioso arrossato tramonto d’un secolo e delle sue
rilucenti bellezze e, insieme, apertura inquieta al secolo nuovo, nelle
spezzate frasi cromatiche che disegnano ormai allucinate spirali di suoni.
Wagner? No, solo il tempo che passa, come ad esempio nel grande pas de deux
che chiude il primo atto e che Boito scrisse riassumendo l’essenziale
dell’amputato atto veneziano: duetto d’amore, certo, ma non più temprato al
fuoco dell’assoluto romantico, costretto invece alla provvisorietà e
relatività dell’amarsi per sventure dell’uno e pietà dell’altra, inusuali
gesti al vivere del secolo che finiva allora; e lo vedi, il tempo che passa,
pure nella morte dell’eroe: anch’essa non più gloriosa ma mitica ancora,
nell’ordinaria rappresentazione che se ne dà tuttora, ma che diventa, nelle
mani sapienti di Martone, disonorevole e priva ormai d’ogni eroica – o anche
solo semplicemente – umana dignità.
Ne fece, Verdi, di Otello, il suo
personale manifesto politico per come era venuta su l’Italia a Risorgimento
compiuto, l’Italietta tronfia e pomposa dalla spirituale pochezza ma dalla
sproporzionata presunzione, donò all’opera sua tutta l’amarezza per
l’occasione perduta dell’idealità mazziniana, delle ormai impossibili
speranze: se Otello rappresenta, allora, al meglio, il potere cieco e pieno
di sé, incapace di guardarsi dentro, attento solo ad una retorica smisurata
e vana, e Jago i malvagi e menzogneri politicanti di quella temperie
politica e culturale (ma forse di tutte), Desdemona incarna proprio quegli
ideali di libertà ormai traditi, soffocati, uccisi, da un potere che non ha
più altri fini che il potere stesso, e quello serve, e a quello tutto
sacrifica.
Disegna così, Mario Martone, con l’essenziale e misurato
ausilio delle scene di Margherita Palli – paesaggio semilunare e pallido
fatto di tende e di rovine romane, di sabbia e cielo, pietra e stelle, case
di fango e lamiera in cui possono incontrarsi, o respingersi, cuori e mani –
un confine, una frontiera, presidiato dalle truppe di un esercito
occidentale occupante: l’ambiente orientale, lontano da casa, da Venezia,
dall’Italia e dall’Europa – forse la Cipro del libretto, tuttora terra
divisa ed estrema, oppure no, forse, chissà, una dei tanti limiti periferici
del nostro universo, reale e metaforico – più facilmente materializza
fantasmi osceni e dubbi taciuti, anima fate morgane di baluginii lontani e
foschi che di sicuro son più facili occorrere in tali frangenti: è, il
confine, luogo duplice e ambiguo per definizione, a volte ponte per
incontrare l’altro nell’amore, talora insormontabile barriera per
respingerlo, ossessione del definito da contrapporre all’eternamente vago e
indefinito, come un sogno, incubo blando, sogno che rivela un fatto oppure
che può dar forma di prova ad altro indizio.
Otello, che entra in
scena brandendo una pistola, è al comando di questo manipolo militare;
Desdemona, anch’essa soldato, è il lato più presentabile dell’occupazione
militare, quello che si occupa di profughi e bambini, ma sempre sotto
l’egida militare, la classica foglia di fico a coprire scomodissime verità:
i nostri sogni, di noi che abitiamo l’Europa civilissima in questo scorcio
di storia, si infrangono qui, in questa perdurante e disturbante ambiguità,
nell’illusione di poter condurre guerre e occupazioni conservando la
primitiva innocenza, la fede in ciò in cui crediamo, libertà, democrazia,
eguaglianza, giustizia, i nostri ideali ormai vuoti; alla fine il sogno è
infranto, il potere inesorabile si libererà anche di quest’ultimo orpello,
il più turpe dei delitti, il femminicidio, renderà tutto più esplicito e più
comprensibile. Ma il tradimento comincia ben prima dell’assassinio, maturato
lentamente all’ombra di un potere abusato e perverso, ne è solo l’ultimo
frutto: la Desdemona guerriera che con una mano aiuta i profughi e con
l’altra imbraccia il mitra è la perfetta sintesi d’ogni ideale ormai arreso
al potere, diventandone parte integrante.
Così, l’attualizzazione
dell’opera verdiana da parte di Martone, che trasmuta la vicenda portandola
più vicina ai nostri tempi e alle tematiche cui purtroppo siamo più avvezzi,
a costo di essere disturbante (e probabilmente proprio per questo) –
suscitando commenti sulle incongruente librettistiche citando spade e galee,
tutta la paccottiglia da cahiers de doléances dei melomani orfani del color
moresco e del selvaggio dalle gonfie labbra – coglie nondimeno l’essenza
della storia, il suo più profondo senso che probabilmente si era nel tempo
smarrito, la profonda attualità della vicenda, che vediamo ripetersi troppo
spesso qui in mezzo a noi, ne definisce l’inesorabile ambiguità, nella
parabola di una vertiginosa caduta che la musica, impietosa, descrive,
analizza, scandaglia; alla fine, Desdemona, che assurge in tal modo ad
autentica protagonista della storia, prega da credente dalla fede limpida e
certa.
Ma, come nota Antonio Rostagno, la musica di Verdi comunica
esattamente l’opposto, per il consueto gioco delle eterogeneità e dei
contrari che definiscono l’unità: l’inquietudine e il dubbio, il cielo muto,
le certezze assenti, la paura della giovane donna davanti alla morte, che si
concretizza, secondo Martone – è un soldato – nella pistola che arriva a
metter sotto il cuscino per poi puntarla contro il marito regredito ormai in
una follia senza luce. Ma preghiera e fede – e anche arma e violenza – non
valgono a salvarle la vita: Desdemona muore per il nulla, avrebbe potuto
morire in missione, finisce senza alcun ideale o fede, senza redenzione.
Perché, allora sì, in questo modo sì, la morte è il nulla, come diceva Jago,
varcando una porta aperta sul buio vertiginoso del vuoto assoluto, il
pessimismo cosmico di Verdi trova perfetto riscontro nel cadavere di
Desdemona portato via frettolosamente in barella – lo sguardo contemporaneo
non sopporta vision di morte – ad Otello il regista nega la morte
consolatoria sul corpo freddo e pallido della moglie. Suona ironico e
beffardo, allora, il Niun mi tema su cui l’opera si chiude, disperato nel
totale smarrimento d’ogni residuo senso, orfano della morte ancora onorevole
dell’eroe, a lui vengono riservati solo i fantasmi osceni del rimorso che lo
accompagnano, privo d’ogni libertà e d’ogni illusione, nella follia e nei
rimpianti, verso il definitivo annullamento.
|
|
|
|
|
|
|