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Musica |
Nicola Cattò
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Liederabend, Milano, Teatro alla Scala, 22. Oktober 2020
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Jonas Kaufmann, una nuova arte del Lied |
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La trilogia autunnale della Scala si è chiusa con il recital liederistico di
Jonas Kaufmann: un successo, va detto subito, pari a quello degli altri due
concerti, con pubblico commosso e sempre più entusiasta dopo ognuno dei
quattro bis concessi dal grande tenore bavarese. Ma andiamo con ordine: il
concerto (che Kaufmann ha tenuto senza intervallo per facilitare il rientro
a casa di un pubblico su cui incombeva il coprifuoco: atto di squisita
sensibilità, che ne conferma la statura umana) riproduceva interamente –
unica differenza l’ordine dei brani – il contenuto del CD “Selige Stunde”
appena pubblicato da Sony Classical, e la cui recensione sarà fra pochi
giorni leggibile nel numero di novembre della nostra rivista. Ed è
all’autore della recensione, Gianni Gori, che rubo questa sintesi: un
programma che “è come camminare in una galleria di quadri di piccolo
formato, uno diverso dall’altro: una galleria per pochi, lunga ma discreta,
da percorrere passo dopo passo in punta di piedi con rinnovato stupore”. O,
per dirla con lo stesso Kaufmann, una serie di “bis”, la concretizzazione di
un’idea nata durante il lockdown quando il tenore ha invitato a casa sua per
tre settimane Helmut Deutsch (già suo professore e poi fedele partner
liederistico dal 1991, e musicista di statura altissima) per fare musica
insieme, incidere un disco che riflettesse l’intimità, la dolcezza, la
penombra dell’interiorità. Ci voleva, però, l’autorità indiscussa di uno dei
grandi divi dell’opera per riportare sotto la ribalta pezzi marchiati dal
segno del kitsch come “In mir klingt ein Lied”, l’arrangiamento dello Studio
n. 3 op 10 di Chopin, o ancora la “Ninna nanna” di Brahms, oltre alla
raffinatezza del riprendere melodie un tempo popolari, ma oggi ignote, di
autori anch’essi sepolti dalla polvere del tempo, come Friedrich Silcher
(con la sua dolcissima “Ännchen von Tharau”, una ballata Biedermeier) o Carl
Bohm. Apparentemente, in questa carrellata di “quadri da un’esposizione”
sentimentale, non c’è una linea guida: ma in realtà, soprattutto
nell’impaginato scaligero, è chiara la progressione delle due metà, entrambe
aperte da due brillanti, energetici Lieder schubertiani (Der Musensohn – che
mette a dura prova una voce ancora fredda – e Die Forelle) per finire
rispettivamente con l’impeto liberty della straussiana Zueignung e, nella
seconda parte, con la lenta discesa verso il mistero dell’Io dei due Lieder
di Wolf e, soprattutto, di “Ich bin der Welt abhanden gekommen”, che nella
versione pianistica è meno apocalittico, definitivo che in quella
orchestrale, la nostalgia e la riflessione prendendo il posto dell’epicedio
su un mondo estinto.
Tanto si è detto sulla “peculiare” tecnica di
emissione di Kaufmann, che sfrutta molto la gola per controllare i suoni e
la loro dinamica: considerazioni del tutto inutili, visto che a 51 anni il
tenore tedesco è nel pieno dominio dei suoi sontuosi mezzi. L’uso delle
sfumature, l’alternanza di suoni “di testa” e “di petto”, i pianissimi a
qualsiasi altezza, oltre al perfetto gusto musicale, che una pronuncia
eloquente ma mai manierista sa esaltare: Kaufmann sa che queste miniature
non devono diventare pezzi d’opera, ma non cade neppure nell’errore opposto,
quello dell’accademismo sterile. Trova accenti ironici e leggeri nella Trota
di Schubert, incanta nel Der Jüngling an der Quelle, con la prima strofa in
piano e la seconda addirittura in pianissimo, sorprende nel già ricordato
pseudo-Chopin, dove non confonde mai sentimento e sentimentalismo,
bordeggiando sul confine del Kitsch con la naturalezza di un grande artista.
Non è facile conquistare un pubblico italiano con un programma liederistico,
ma Kaufmann ha trovato la strada giusta, che è poi quella predicata tante
volte, con sfumature diverse, da Piero Rattalino sulle nostre pagine: basta
con le integrali, con i programmi “intellettuali”, con la missione del
docere. Oggi, per riconquistare il pubblico, bisogna anzitutto delectare con
intelligenza, coinvolgere, spiegare. Non imporre.
Poi, certo,
Kaufmann ha anche il carisma del grande, e quello non si impara: dopo due
bis straussiani (Traum durch die Dämmerung e Nichts), ecco virare alla
lingua italiana con Ombra di nube di Refice (un tempo popolare, oggi
riproposta solo da lui) e, infine, concedersi al deliquio del pubblico con
un Core ‘ngrato piacione e insieme ironico, che teneva insieme l’acuto
liberatorio con inedite sfumature. E mentre il futuro della Scala, e di
tutti i teatri, sembra così incerto, il presente raramente è stato così
luminoso.
L’occasione era la presentazione del CD “Selige Stunde”,
oltre che di un biopic disponibile però solo su Amazon Prime Germania e di
un altro disco natalizio di prossima uscita (sempre per Sony Classical):
ripercorsa la genesi del disco liederistico, che ho sintetizzato più sopra,
Kaufmann ha confessato che in quelle tre settimane chiuso in casa col suo
storico pianista ha potuto incidere altro materiale, utile per progetti
futuri, ma soprattutto “fare musica” (Hausmusizieren, appunto) per il puro
piacere personale, senza un progetto lavorativo alle spalle. Si è poi
parlato di come affrontare il repertorio liederistico in un grande teatro
(“Basta non spingere, importa l’intensità del suono e non il volume”) e del
futuro della musica in tempi di grande crisi: “se i teatri sono chiusi, ce
ne si dimentica, i musicisti devono cambiare mestiere e quando si
riapriranno un’intera generazione sarà scomparsa. Anche nelle guerre i
teatri sono rimasti aperti, perché la gente aveva bisogno di dimenticare le
brutture per qualche ora, e anche ora lo Stato deve fare la sua parte. Per
questo apprezzo molto gli sforzi di quelle nazioni come l’Italia, che non si
stanno arrendendo”. Per concludere con una bella similitudine: “l’arte è
come un albero: se si rompe un ramo, non ne crescerà subito un altro”.
Durante il lockdown, Kaufmann ha imparato a godere di ritmi più lenti,
pur non avendo mai perso, neppure prima, la gioia nel fare musica, il
piacere della scoperta continua: l’applauso del pubblico non è il pane
dell’artista, come dicono molti suoi colleghi, perché fare musica è un atto
“egoista”. Si parla poi del Don Carlos viennese che, dopo molti mesi, ha
segnato il ritorno del tenore sul palcoscenico in un’opera completa, del suo
approccio al ruolo di Otello (vedi la nostra intervista sul numero di giugno
2020), sui progetti scaligeri (tornerà a breve, in un’opera italiana): e in
breve, fra un aneddoto personale e una risata, è finito l’incontro con il
grande tenore bavarese.
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