La Stampa, 29/09/2018
ALBERTO MATTIOLI
 
Liederabend, Teatro alla Scala, Milano, 28. September 2018

Il tenorissimo Kaufmann strega la Scala, sette bis e groupie in delirio per i Lieder del bel Jonas
 
All’Opera Bavarese uno splendido cast vocale per l’opera di Wagner ma la regia non convince
 
La Scala lo ama. E infatti: standing ovation, groupie scatenate che porgono omaggi floreali e non, sette bis e assedio post concerto all’ingresso degli artisti. Seratona milanese con Jonas Kaufmann, tenorissimo adoratissimo in tutto l’universo e in altri siti, bello e bravo e simpatico e piacione, per una Liederabend dov’era accompagnato, anzi duettava con il pianoforte del solito immenso Helmut Deutsch.

Kaufmann è in realtà una star paradossale, dunque interessante. Per cominciare, non ha affatto una tecnica “classica”, italiana. A riprova che non è affatto vero che si canta in un modo solo, né che ci sia un solo modo “giusto” per cantare, superJonas canta con la “sua” tecnica. È verissimo quel che dicono i talebani del Garcia e i sommi sacerdoti del Vaccaj: Kaufmann è effettivamente ingolato, e i suoi piani e pianissimi sono davvero dei falsetti. Però aggiungiamo noi: e chi se ne frega. Perché quel che conta è il risultato, quello di un cantante che finalmentel è un artista, per il quale il suono è un mezzo e non un fine, che parte dalle sue idee interpretative e poi forgia le sonorità per realizzarle. Questo spiega sia il suo successo, perché il messaggio “passa” sempre (e poi il grande artista è appunto quello che inventa gli strumenti che gli servono, vedi la lezione della Callas), sia l’impressione di novità che riesce ancora a trasmettere un artista in carriera internazionale ormai da dodici anni. La ricchezza di colori, di effetti, di dinamiche è prodigiosa. E sempre senza barare, prendendosi dei rischi che arrivano fino a un portamento (in Ich atmet’ einen linden Duft, eseguito come primo dei Rückert-Lieder di Mahler) ai limiti dell’intonazione, quasi una procurata stecca. Che però, lì, sussurrando di Ein Angebilde von lieber Hand, un dono di mano amata, diventava espressiva.

Secondo paradosso. Bavarese, educato alla Hochschule di Monaco, cresciuto a Brezel e Lied, Kaufmann ne padroneggia perfettamente lo stile. Ma è un operista che fa il liederista, non viceversa. E, benché proponga un programma per tre quarti di non operisti, Liszt, Mahler e Wolf, ci cerca dentro il teatro. È drammatico, non contemplativo. Facile, certo, farlo nella ballata del Re di Tule; straordinario in Die drei Zigeuner, sempre Liszt, che diventa una scena d’opera in miniatura (e, a proposito di quel che si diceva: quando racconta del terzo zingaro che dorme beato con il suo “Zymbal” appeso all’albero, la voce prende il colore della stanchezza. Capisco che è difficile da dire e forse anche da credere, ma è così). Questa capacità di raccontare, questa bravura di affabulatore spiegano perché un programma liederistico abbia stregato la Scala, che non ha né le dimensioni né il pubblico adatti.

Finale con gli Ultimi quattro Lieder di Strauss. Che li canti un tenore, è una sfida. Che li canti così, significa averla vinta, inventandosi tutta una voce di testa su tessiture scivolosissime per dare ai melismi straussiani tutta la loro nostalgica morbidezza. E poi il finale di September valeva da solo la serata: impossibile non commuoversi, perché lì davvero se non piangi, di che pianger suoli? Eppure, “verità”, come Butterfly, siamo talmente abituati ad ascoltarli da una voce femminile, anzi, di più, siamo talmente abituati a pensare che Strauss li abbia pensati per un soprano che l’effetto, alla fine, è un po’ straniante.

Comunque, delirio. E qui, in una Scala diventata una bolgia, con le fan in deliquio e le balcony girls in delirio, sono iniziati i bis, anzi il concerto-bis. Per le prime tre volte, Kaufmann ha resistito sulla linea del Lied. Quando ha ceduto e Deutsch ha attaccato l’introduzione a Se quel guerrier io fossi è partito un applauso. Che dire? Un “Celeste Aida” non ortodosso, e con un “averasse” strano per lui che parla l’italiano meglio della maggior parte dei ministri del governo Conte. Però ci ha lasciato incollati alla sedia. Sul si bemolle finale, una specie di messa di voce, piano-forte-piano, che non è il forte-piano previsto da Verdi, ma è stato un gran bel sentire (e, per inciso, mai abbiamo sentito la romanza di Radamès suonata così da un pianista, e temo mai più la sentiremo). Poi sono arrivate una magnifica Fleur e un E lucevan le stelle magari un po’ stanco ma magnetico. Un ultimo Liszt ci ha finalmente mandati in pizzeria. Felici.

















 
 
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