|
|
|
|
|
Classic Voice, 5 Mar 2015 |
Andrea Estero |
|
Verdi: Aida, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rom, 27. Februar 2015
|
Aida a Santa Cecilia e alla Scala |
|
A Roma il debutto in Radamès di Kaufmann; a Milano il taglio dei
ballabili voluto da Stein |
|
La disfida delle Aide tra Scala e Santa Cecilia
la vince Roma. Al netto delle differenze al nastro di partenza: un’opera in
forma di concerto come esito finale di una registrazione discografica
(Warner classics) da una parte. Dall’altra un nuovo allestimento di un
capolavoro del melodramma italiano, ambito in cui la gestione Pereira
intende investire nel futuro le migliori energie.
Però la Scala parte
decisamente col piede sbagliato amputando la partitura di Verdi: il regista
Peter Stein elimina i ballabili della scena del trionfo e Zubin Mehta avalla
questa sconcertante decisione sotto lo sguardo comprensivo del direttore
artistico (sempre Pereira). Motivazioni plausibili? Non pervenute.
Invece Aida oltre a essere debitrice dell’estetica del grand opéra e delle
sue seducenti ed effimere decorazioni è opera di simmetrie. Una costruzione
perfetta che incastona il vissuto dei personaggi in imponenti impalcature
drammatico-musicali: quasi a volerlo comprimere, schiacciandolo. I primi due
atti costituiscono un blocco unico e simmetrico di quattro scene, con le
“notturne” impregnate di esotismo incorniciate da quelle solari, pubbliche,
celebrative. E dove temi e motivi tornano a edificare imponenti costruzioni,
come il “Numi pietà” che sigla la fine della prima e terza scena. Nella
cosiddetta scena del trionfo i ballabili sono la parte centrale di una forma
tripartita: rottamandoli, l’arco crolla.
Di questa natura composita
Pappano ha dato a Roma una ricreazione magistrale. La sua Aida vive di
grandi campiture in cui i singoli numeri musicali sono culmini drammatici ed
espressivi non autosufficienti. Ci è riuscito con un’idea dell’opera
fortemente drammatizzata e ricca di contrasti, ma anche con un perfetto
senso dell’ineluttabilità dei tempi e degli eventi, in un fluido gioco di
sospensioni e urgenze, di rubati e strette perentorie. Anche le parti
“esotiche”, restituite dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia con
miracolosa trasparenza, non vivono di per sé – come epifanie di scritture e
climi di là da venire – ma per la loro efficacia nello scacchiere di pieni e
di vuoti, di accelerazioni e allentamenti.
Se Pappano pensa Aida in
senso orizzontale, come racconto teso e dinamico, Zubin Mehta ne assapora le
verticalità. Mehta coglie l’altro aspetto cruciale dell’opera, la polifonia
di sentimenti e situazioni. La loro compresenza dolorosa. Non solo nei pezzi
d’insieme, duetti terzetti ensemble qui eccezionalmente numerosi, ma nella
dialettica tra voci e orchestra: gli stacchi di tempo più lenti liberano
infatti sottotesti vocali e strumentali inediti, emotivamente tortuosi.
Irrisolvibili. E ciò avviene grazie anche alla superiore sensibilità degli
orchestrali scaligeri, laddove i ceciliani vincono per smalto e compattezza
dell’insieme (mentre i coristi, per emissione, “corpo” e dizione, sono
eccelsi a entrambe le latitudini).
Sulle voci invece – premesso che
la sala Santa Cecilia del Parco della musica, senza le “quinte” teatrali,
penalizza in maniera vistosa i cantanti – non c’è confronto. A Roma Jonas
Kaufmann, al debutto nella parte, è un Radamès sensibilissimo, pronto a
“inchiostrare” la voce con colori bruniti o ad assottigliarla come nel si
bemolle della cavatina d’esordio: perfettibile nell’aggancio ma vertiginoso
nello sfumato. Le iperboli drammatiche che inondano la sala non mancano, ma
a fare la gioia di chi comprerà il disco è il suo canto fraseggiato,
pastoso, sempre incentrato sulla parola. Il contrario di Massimiliano
Pisapia che alla Scala arriva a sostituire Fabio Sartori con un Radamès
solare e muscolare, inerte e poco resistente.
Le Aide deludono
entrambe: meglio la romana di Anja Harteros, con la sua linea elegantemente
patinata, della milanese di Kristine Lewis, dalla pronuncia indistinta e
dalla vocalità frantumata. Delle due Amneris le preferenze vanno invece a
quella scaligera: perché Anita Rachvelishvili punta sull’accento e la
costruzione teatrale del personaggio, mentre Ekaterina Semenchuck
sull’esibizione “pettorale”: iperdrammatica nelle intenzioni, cavernosa nei
risultati. Un’eccezione nel cast ceciliano, tutto piuttosto “lirico”, dove
emergono anche l’Amonasro “dicitore” di Ludovic Tézier e l’elegante Ramfis
di Erwin Schrott. D’altra parte la Scala paga il pegno a una “star” al
tramonto come Matti Salminen, Ramfis da pensionare, e si rifà con un Re
senza retorica, persino insinuante, di Carlo Colombara.
Al Piermarini
l’impostazione scenografica delle prime situazioni cattura: un’Aida
catacombale, colta nelle profondità delle piramidi dai cui anfratti filtra
appena la luce esterna e nelle cui oscurità si celebrano indecifrabili riti
misterici. Tabula rasa rispetto ai luna park scaligeri recenti e primo passo
per centrare la rappresentazione di individualità sconfitte di fronte a
poteri imperscrutabili e immensi. I quadri successivi però sono pasticciati,
indecisi tra intriganti astrazioni ed antichi trionfi. Così come la regia
vera e propria: concentrata più sul gesto che non sul bozzetto, è vero. Più
lavorata nei rapporti. Ma incapace di azzerare di quei gesti la retorica, le
ridondanze, la convenzionalità. Verdi meriterebbe di affrancarsi
dall’operismo registico: ma Peter Stein – proprio lui, un maestro del teatro
di parola – sembra sempre più deciso a farcelo restare. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|