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Il Giornale, 08/12/2012 |
Giovanni Gavazzeni |
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Wagner: Lohengrin, Teatro alla Scala, 7. Dezember 2012
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Il soprano arrivato all'ultimo salva Elsa e il «Lohengrin»
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Tempi grami. La crisi entra anche nei luoghi della musica. La creatività è
avviata verso climi quaresimali. L'edizione di Lohengrin, l'opera romantica
di Richard Wagner prescelta per la serata inaugurale della stagione 2012-'13
del Teatro alla Scala di Milano, non ha fatto eccezione. La moda corrente
ritiene l'epopea ambientata nel X secolo una metafora bisognosa di filtri
attualizzanti, i più adatti ad avvicinare la vicenda al pubblico di oggi.
L'impostazione del regista Claus Guth - chiarita dalle dotte argomentazioni
del drammaturgo Ronny Dietrich - ambienta Lohengrin nel turbolento 1848
(anno di composizione). Allo spostamento temporale si sovrappongono
«evidenti» riferimenti all'autobiografia wagneriana.
La scena di
Christian Schmidt presenta, nel corso dell'opera, immutabilmente un loggiato
a tre ordini, dove spesso si posiziona il coro. Pochi elementi sul
palcoscenico. Un tavolo, dove il Re Enrico consulta le carte militari e la
coppia infernale Telramondo-Ortruda imbastisce l'accusa. Un pianoforte
verticale (personificazione del compositore?), davanti al quale la
tormentata eroina Elsa e il suo cavaliere, Lohengrin, rivelano inquietudini
e sensi di colpa. Uno scranno arboreo sul quale ascende Elsa quando sogna il
suo vendicatore. Il finale si svolge in un canneto con laghetto dove Elsa,
fra un pediluvio e l'altro, rivolge le fatali domande sull'identità e la
provenienza di Lohengrin. Non tutti i simboli sono chiari: a chi mai
apparterrà la bara che passa sotto la loggia all'inizio del primo atto? Allo
scomparso duca di Brabante, Goffredo? Forse, ma questi - lo riconosciamo
alla fine - è un ragazzetto che si aggira per il palcoscenico a piedi nudi,
in gilet e pantaloni, ostentando un braccio piumato (questo è quanto
sopravvive del cigno prescritto dalla tradizione).
Lohengrin secondo
Guth è un uomo smarrito, traumatizzato. Però se non avessimo letto le note
del drammaturgo non avremmo capito - colpa nostra - che l'onirica regia si
ispira al caso di un bimbo che scosse la Germania del primo Ottocento.
Kaspar Hauser, questo il suo nome, comparve dal nulla, e mai si seppe donde
venisse. Educato da un grande uomo di cultura, Anselm Feuerbach, venne
ucciso nel fiore degli anni in circostanze misteriose. Wagner sosteneva di
averlo visto in gioventù. Il collegamento con il mito dell'ignoto cavaliere
del Graal è seducente, ma chi non conosce la fosca storia di Hauser (o non
legge il programma di sala) dubito reputi «evidenti» questi riferimenti. Non
manca l'inquadramento socio-politico: alle nozze il coro si presenta in tuba
e frac, come da copione, per i capitalisti azzimati a festa. Il tema dello
scontro fra la religione cristiana e gli antichi Dèi pagani di cui Ortruda è
adepta, viene sostituito dai numerosi riferimenti all'inconscio freudiano.
Voltiamo pagina, e parliamo di musica e canto. Jonas Kaufmann
(Lohengrin) ci ha confermato la sua attuale unicità nel campo tenorile,
dando rilievo e credibilità alla non certo facile impostazione della regia.
Di più. Ha offerto meravigliosi momenti in cui recitazione e canto si
esaltavano reciprocamente. Quando c'è lui in scena tutto lievita. In altro
registro lo stesso può dirsi del basso René Pape (Re Enrico). Anche lui
personalità unica. Modesta la prova del baritono Tomas Tomasson, nel pur
decisivo ruolo di Telramondo. La bella presenza scenica di Zelijko Lucic
(Araldo) non è completata dall'occorrente squillo vocale che il ruolo
prescrive. Plauso particolare al soprano Annette Dasch che, chiamata per un
pronto soccorso (ammalate sia il soprano titolare sia la sua sostituta) si è
inserita con una prestazione vocale degna di encomio. La vera vincitrice nel
dramma, Ortruda, aveva la voce vibrante e la grinta di Evelyn Herlitzius,
cui va un plauso particolare per aver affrontato una delle parti più scomode
e impervie dell'intero repertorio wagneriano. Il coro che nel Lohengrin è
co-protagonista, sottoposto com'è a mutamenti espressivi e ritmici
difficili, si è confermato, sotto la guida di Bruno Casoni, punto di forza
del teatro milanese. Una sentita menzione alla sezione delle trombe, sulla
scena e fuori, che accompagnano gli stentorei editti dell'Araldo. Il maestro
Daniel Barenboim, nel repertorio dov'è ritenuto specialista, ha impresso
alla serata il segno delle sue massicce sonorità, dove egli sfoga
passionalità.
Grazie alla decodificazione della cervellotica chiave
registica (fischiata) abbiamo compreso lo spettacolo, cui vanno tutti i
consensi per la tenuta complessiva. Il pubblico, infatti, applaude per 15
minuti.
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