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L'opera, Gennaio 2012 |
Mario Hamlet-Metz
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Gounod: Faust, Metropolitan Opera New York, 3.
Dezember 2011
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Faust
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La nuova produzione di "Faust" che abbiamo visto al Met era la
rapprezentazione numero 734 dell'amatissima opera di Gounod.
La
produzione firmata da Robert Brill (scenografia), Des McAnuff (regia), Paul
Tazewell (costumi), Peter Munford (Luci), Sean Nieuwenhuis (disegno video) e
Kelly Devine (coreografia), moderna senza essere rivoluzionaria eoffensiva,
ci trasportava al Ventesimo secolo dentro un laboratorio dove l'invecchiato
e amareggiato scienziato Faust collaborava nella fabbricazione della bomba
atomica, circondato da numerosi assistenti in impeccabile uniforme bianca e
pronti a prendere nota. Nei due lati del palcoscenico, due scale a
chiocciola metalliche con, in alto, due passerelle: di là, Méphistophélès e
Faust potevano osservare l'azione che si svolgeva al piano inferiore. In
fondo, delle porte che s'aprivano e lasciavano vedere direttamente o tramite
proiezioni, i ritratti di Faust e Marguerite, il giardino con i fiori rossi,
la chiesa dove Méphistophélès non lasciava pregare la colpevole ragazza,
Walpurgis, la gabbia dove l'infelice madre pagava il delitto di avere ucciso
il figlio, la grande scalinata per la quale l'eroina redenta e perdonata
saliva, in apoteosi, verso i Cieli.
Nella regia di McAnuff, uomo di
teatro e debuttante nel Met, c'erano dei dettagli che senza apportare grandi
contributi offrivano almeno qualche originalità e forzavano tutti (solisti e
coro) a recitare e a infondere alla parte teatrale una visione moderna,
rinfrescante e significante. Marguerite era fisicamente presente
dall'inizio: nel primo atto dava un fior all'incantato Faust; nel secondo
atto, presentava la medaglia al preoccupato fratello e amoreggiava un po'
durante il valzer. Méphistophélès occhieggiava spesso dall'alto, padrone
della situazione. Faust sembrava frustrato, non solo come scienziato ma
anche con Marguerite quando l'innocente ragazza non accettava i suoi primi
approcci amorosi e con Méphistophélès, quando non faceva quello che il suo
discepolo gli chiedeva. Vivendo tra le due guerre e indovinando che il mondo
stava per crollare (Nagasaki), il vecchio dottor Faust arrivava alla fine
dei suoi giorni triste, solitario e senza scopo. A quel punto, cominciava il
suo sogno che, con l'aiuto diabolico, iniziava in modo propizio e, dopo aver
causato la sfortuna dell'amata, finiva tragicamente. Svegliato bruscamente
dal sogno, non trovava altro mezzo che il suicidio per finire una vita che
non gli aveva portato felicità o soddisfazione alcuna.
II
cast di questa nuova produzione era insuperabile, sia come talento teatrale
che vocale. Il timbro caldo e dal colore quasi baritonale, l'abilità di
accentare e dare senso al testo, la conoscenza della fonetica e della
semantica della lingua francese, la sicurezza e lo squillo degli acuti,
l'uso intelligente della mezzavoce facevano di Jonas Kaufmann un Faust
vocalmente ideale. Più di uno criticava la sua tendenza a fraseggiare
passando spesso dal forte al piano all'interno delle frasi. Ovviamente,
l'artista lo fa con l'intenzione di rendere il discorso più logico, mai ci
sono dei rischi in questo approccio che non sempre sono a fuoco e che forse
lo faranno riflettere. Mi spiego. Nella recita del 3 dicembre, il tenore
prendeva l'acuto di «Salut, demeure» in un forte che diminuiva di volume
poco a poco, per finire in un piano piuttosto mal riuscito. Eppure, il suo
canto diventava glorioso pochi momenti dopo, durante la totalità del
romantico duetto con Marguerite. Personalmente, io ho trovato che la voce di
Kaufmann rivelasse tutta la sua qualità e bellezza timbrica in questo duetto
e nei momenti stentorei, nel duetto con Méphistophélès alla fine del primo
atto, nel confronto con Valentin e nel terzetto finale dell'opera.
René Pape era un Méphistophélès elegante, ironico, padrone assoluto del
palcoscenico. La sua tremenda presenza scenica e il canto incisivo, ricolmo
di intenzioni, potente e autorevole facevano di lui un protagonista
perfetto.
Durante gli intervalli si vedeva proiettata sul fondale una
grande foto di Marguerite, che la rivelavano come una donna bella ma un
tantino matura e che mancava nell'espressione dell'innocenza e della
freschezza di una ragazza che si suppone giovanissima. Lo stesso succedeva
con l'interprete, il soprano Marina Poplavskaya. Artista impegnatissima,
convincente e a volte commovente, come nell'ultimo colloquio con Faust nel
carcere, quando passava dalla pazzia alla normalità. La voce suonava grande,
bella e flessibile ma senza l'incisività e la giovanile freschezza proprie
dell'età della protagonista (vi ricordate Mirella Freni, che già matura non
perdeva questa qualità?). Abbiamo notato anche nella Poplavskaya una
tendenza, ogni tanto, a crescere leggermente di tono. Nonostante questo, la
sua Marguerite era di altissimo livello.
Russell Braun tornava al Met
come Valentin e s'integrava perfettamente al gruppo di «stars» che lo
circondavano. La sua recitazione e la voce stessa sembravano essere
cresciute in potenza ed espressività. Michèle Losier, Siebel, tornava a sua
volta in questo teatro più matura vocalmente. II cast si completava con il
promettente debuttante Jonathan Beyer (Wagner) e l'esperta Wendy White che
si divertiva interpretando la volubile Marthe.
Gran parte del
successo della serata era dovuto alla magistrale direzione di Yannick
Nezet-Seguin, il maestro che continua ad impressionare, questa volta ancora
per le sua conoscenza intima dello spartito, per la sua sensibilità, per la
perfetta comunicazione con solisti e coristi. Era inutile cercare debolezze
nella sua bacchetta sicura e in controllo assoluto dello spettacolo.
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