Milano: la nuova stagione del Teatro alla Scala inaugurata da una
bellissima edizione di Carmen, con le regia simbolica e fortemente teatrale
di Emma Dante, la personalissima e affascinante concertazione di Daniel
Barenboim e le splendide prove vocali di Jonas Kaufmann, Erwin Schrott e
dalla giovane «deb» Anita Rachvelishvili
Le
stagione 2009/10 del Teatro alla Scala si è inaugurata con una bellissima
edizione di Carmen accolta da un successo trionfale a parte le - immotivate
– contestazioni alla regia. Andiamo con ordine: si è scelta la versione
«opéra-comique» con i dialoghi parlati. I dialoghi in realtà sono stati sin
troppo «sforbiciati», tra cui l'importante momento del primo atto in cui Don
José racconta di essere un ex seminarista che ha abbandonato gli studi
religiosi e la città natale per un episodio di violenza. In un contesto come
quello di questa regia sarebbe stato fondamentale far comprendere l'aspetto
introverso, complessato e potenzialmente pericoloso dell'uomo, vessato da
una madre opprimente e dai diktat incombenti di un soffocante cattolicesimo.
Sul podio dell'Orchestra scaligera, ad un livello di eccellenza assoluta,
Daniel Barenboim ha offerto una lettura magnifica e personalissima del
capolavoro di Bizet. Su tutta la partitura, secondo Barenboim, incombe
l'ombra scura e luttuosa del destino e anche i momenti più brillanti si
tingono di ansiosa tragicità. È incredibile la tavolozza di colori e
sfumature che il maestro argentino riesce ad offrire: il respiro degli
slarghi sinfonici si tinge di tutta la morbida e voluttuosa ansia di
sfinimento che pervade la musica a cavallo tra Otto e Novecento, e, come è
tipico della visione musicale di Barenboim (vedi Requiem nelle pagine
seguenti), anche Carmen fa parte del grande arazzo della musica europea di
questo periodo, con un piede ancora nel passato, ma gli occhi e il cuore già
proiettati verso il futuro. Diversi tasselli che compongono il mosaico di un
lucido e affascinante discorso interpretativo unitario. I trepidi e notturni
brividi, pervasi di sfuggente inquietudine, di certi accompagnamenti dei
momenti più celebri («La fleur» ma anche l'«Aria delle carte», resa con il
passo di una raggelante marcia funebre) resteranno a lungo impressi
nell'animo dell'ascoltatore.
Il ruolo della protagonista era sostenuto da una venticinquenne georgiana
proveniente dall'Accademia del Teatro, Anita Rachvelishvili. Poteva essere
una scommessa pericolosa, invece pienamente vinta. Questa ragazza possiede
una voce portentosa, un vero tesoro di cui aver molta cura, con scelte
oculate e sagge nel periodo che verrà dopo questa improvvisa notorietà con
relativa sbornia mediatica.
Anita possiede bellissima voce mezzosopranile, ampia, risonante, di colore
ambrato e già gestita assai sapientemente del punto di vista tecnico. Mai
nessuna foratura, mai nessuna inutile esagerazione stilistica. Si avverte
che la giovane cantante si è preparata molto seriamente a questo importante
debutto, e ciò è evidente dalia cura posta nel fraseggio e nelle nuances
espressive. La sua è una Carmen corposa, intensa, forte, drammatica, sino a
giungere ad una vera e propria dimensione tragica. Scenicamente non avrà
forse la figura ideale, ma con la sua massa di capelli neri e la sua
imponente fisicità, perfettamente calata in questa Carmen del Sud, così
carnale elegata alla terra, era perfetta e la sensualità del ruolo passava
direttamente attraverso una voce, che, se ben gestita, sarà una di quelle di
cui sentiremo parlare a lungo negli anni a venire.
Prodigioso,
senza mezzi termini, il Don José di Jonas Kaufmann. Il cantante tedesco è
senza ombra di dubbio uno dei più grandi tenori odierni. La sua incarnazione
del personaggio èstata memorabile. Una voce scura, dalle risonanze
baritonali, ma capace di acuti fulminanti
come lame d'argento, che trova no spazio in una rete di dettagli
espressivi, di ombreggiature, di
mezzevoci strepitose (le smorzature de «La fleur» sarebbero state da
applausi a scena aperta)
che rappresentano il biglietto da visita di un indiscutibile
fuoriclasse del canto. L'interprete, l'attore, il fraseggiatore, poi, sono
«tout court» emozionanti. Il più completo, autentico e plausibile Don José,
oggi.
Erwin Schrott, poi,
è un Escamillo pressoché ideale. Del «toréro de Grenade» il giovane basso
uruguayano possiede l'insolente presenza scenica, la voce pastosa, e ben
proiettata, lo slancio in acuto, l'omogeneità in tutta la gamma, pur in
questo ruolo scomodo che mette in difficoltà un po' tutti i suoi interpreti,
diviso com'è tra due registri vocali. Di suo Schrott aggiunge la naturale
capacità d'attore, di «dire», caricandola d'intenzioni e accentandola a
dovere, sia la parola scenica che quella cantata, l'ampiezza e le timbratura
di un organo vocale, che, tra 1e ultime generazioni della sua corda vocale,
conosce pochissimi confronti.
Adriana Damato, come Micaéla,
rappresentava l'anello debole della catena. Voce di grana indecifrabile, tra
il leggero, il lirico e il lirico-spinto, con tutte le disuguaglianze del
caso, il soprano, al di là di un approccio volonteroso, ha mostrato troppe
falle nell'emissione, talvolta nell'intonazione, nella gestione di acuti
spesso asprigni e nel sostegno del fiato, decisamente a corta gittata.
Molto buone la
Mércédès di Adriana Kucerova, e, soprattutto, la squillante e argentina
Frasquita di Michele Losier. Di vario livello, comunque non
indimenticabile,fatta eccezione per il convincente Zuniga di Gabor Bretz,
l'apporto dei restanti comprimari: Francis Dudziak (Le Dancaire) e Rodolphe
Briand (Le Remendado), Mathias Hausmann(Moralès), Perla Viviana Cigolini
(Mercante d'aranci), Lorenzo B.Tedone (Uno zingaro).
Divertentissimo il
cameo del Lillas Pastia giovanile e ipercinetico dell'attore Gabriel Da
Costa. Nel ruolo dell'onnipresente Prete Guida, Carmine Maringola.
Sensazionale,
senzamezzi termini, l'apporto del Coro scaligero preparato da Bruno Casoni,
così come quello del validissimo Coro-di Voci Bianche del Teatro alla Scala
e del Conservatorio «G.Verdi» di Milano, diretto da Alfonso Caiani.
Non resta che
parlare della regia, intelligente, simbolica e di forte impatto teatrale di
Emma Dante - contestata rumorosamente alla «prima», ma anche fatta segno di
consensi accesissimi e convinti - coadiuvata dalla presenza dei bravissimi
attori della sua «Compagnia Sud Costa Occidentale» e dagli allievi della
Scuola di Ballo della Scala.
Emma Dante - autrice
anche dei costumi, azzeccatissimi nel clima dello spettacolo, mentre le
scenografie essenziali, spoglie e per questo di ancor più forte impatto
drammatico, erano firmate da Richard Peduzzi - ha immaginato un Sud
dell'anima e del mondo quasi metafisico, alla De Chirico, benissimo
illuminato dalle luci di Dominique Bruguière.
In questo universo
arcaico fatto di superstizioni, incombono simboli religiosi a testimoniare
una società dominata dalla religione cattolica intesa nel suo senso
repressivo e inibente. La stessa Micaéla, in abito double Face nero - per il
dolore della lontananza di Josè e la malattia della «suocera» - e bianco (il
sogno di sposare finalmente l'uomo che le è destinato) è sempre seguita da
un prete, che salvaguarda la sua «integrità» e pronto ad officiare la
cerimonia, e da due chierichetti.
Non c'è un solo calo
di tensione drammatica nello spettacolo, che vive di continue e profonde
invenzioni registiche e i momenti da ricordare sono molti.
Nel primo atto il
coro dei bambini, trasformati in piccoli soldati irregimentati, seguiti dai
ragazzi che diverranno, pronti per morire, che recano sulle spalle altri
bambini in mutande e scalzi, che poi scappano giocando, anime libere e pure
dell'infanzia, mentre il loro doppio «adulto» cade a terra; l'uscita delle
sigaraie dalla manifattura di tabacchi, con gli scuri abiti da lavoro che le
fanno somigliare a delle monache e che restano a poco a poco in sottoveste
mentre si rinfrescano nella fontana della piazza, cosparsa dei fiori che
recano in bocca e che poi diventeranno girandola multicolore intorno a
Carmen che intona l' Habanera; la stessa Carmen seguita sempre, nel corso
dell'opera, da cinque bambine, sorta di «figlie» e proiezioni di se stessa,
che addestra al mestiere di «gitane», testimoni del suo tragico destino; la
seconda parte del duetto Don José-Micaéla, con lei in abito bianco
inginocchiata a terra coperta da un grande velo, desiderio di un matrimonio
che mai ci sarà; la «Séguedille» con due lunghe funi che imprigionano, più
che Carmen, lo stesso Don José, come i fili di una ragnatela mortale tessuta
dalla zingara.
Nel secondo atto l'apparizione trionfale di Escamillo
seguito da fantasmatiche figure in bianco, che ricordano la Vergine della
Macarena, mascherate e ingioiellate: la corte del toreador, le
aristocratiche che lo adorano e non vogliono tarsi riconoscere.
II
terzo atto, poi, è da antologia: i contrabbandieri «travestiti da alberi in
uno spazio spoglio e silenzioso, da qualche parte ai confini della notte e
del nulla; I'«aria delle carte», funebre canto di morte, vede tutti i
contrabandieri sdraiati mentre un gruppo di parche nero-velate, così simili
alle prefiche urlanti di certe processioni del nostro Sud, depongono tra i
corpi piccole croci bianche, rendendo l'accampamento il cimitero dell'anima
di Carmen; il duello tra Escamillo e Don José è da togliere il fiato,
scandito sui ritmi della danza di morte della corrida, mentre addirittura
geniale è l'apparizione di Micaéla: con i capelli ingrigiti, nella frase
finale della sua invo-cazione, «Hélas! José, ta mère se meurt... et ta mère
ne voudrai pas mourir sans t'avoir pardonné», la donna si trasforma nella
madre morente, stesa in un enorme letto bianco. I due volti della stessa
donna, le anime «castratrici» e colpevolizzanti del frustrato José.
Il quarto atto vive del drammatico, disperato - e commovente- confronto
finale tra Carmen e il suo carnefice. L'uomo, come tutti i deboli che non
sanno imporsi, diventa aggressivo e brutale, cerca ripetutamente di
violentarla. Sarà lei, conscia che la fine è inevitabile e in un certo senso
liberatoria, a porgergli il coltello che la ucciderà e finira sgozzata tra
le braccia delle donne in nero, mentre Don José si sporca il volto del
sangue della vittima e sulla scena passa il medesimo catafalco Funebre che
aveva attraversato il palco all'inizio del primo atto.
Grande,
autentico, emozionante teatro. Alla seconda recita successo
clamoroso, con dieci minuti di applausi: trionfo personale per Kaufmann,
acclamazioni per Anita Rachvelishvili e per Schrott, qualche
isolato «buh» per la Damato.
Barenboim sugli scudi e lui esce ancora
una volta abbracciato ad Emma Dante, come alla «prima». Ancora molte
contestazioni, ma questa volta i consensi e le grida di «brava!», da tutti i
settori del Teatro, sono in maggioranza. Volentieri ci associamo. (10
dicembre)
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