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Del Teatro, 08 dic 2009 |
di piero gelli |
Bizét, Carmen, Mailand, 7. Dezember 2009
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Carmen
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Ci sono operazioni talmente astute, o per dirla in correttamente - visto che
il sovrintendente Lissner è francese - talmente rusèes, che hanno il
successo in tasca, come questa Carmen, che ha inaugurato la stagione lirica
della Scala; e i fischi, ingiustissimi, alla regia paradossalmente
contribuiscono a accrescerlo. La formula è presto detta: un'opera arcinota e
non poco usurata, un bravissimo e provato scenografo e l'astro nuovo del
teatro, anche se di prosa e, in questo caso, una regista, già nota in Italia
e in Francia per le sue provocatorie messe in scena: Emma Dante palermitana,
quarantenne, decisa e indomabile.
Giornali e settimanali, che di solito dedicano non più di qualche strozzata
notizia alla lirica e lesinano righe ai loro critici, come impazziti, hanno
dedicato pagine e pagine all'"evento". E non solo gli addetti ai lavori
ripercorrono la storia e la tradizione di quest'opera, ma anche generici
cronisti dello spettacolo si affrettano a dire le loro corbellerie, perché
insomma la Carmen tutti sanno chi e che cos'è, magari in cinema: Carlos
Saura (1983) e Francesco Rosi (1984) e, lontane nel tempo, Charles Vidor con
Rita Hayworth e Glenn Ford (Gli amori di Carmen, 1948) o Otto Preminger, con
la nera Dorothy Dandridge e il nero Harry Belafonte (Carmen Jones, 1954). Ma
ce ne sono tantissime, perfino una muta di Chaplin (1916) e una romanesca,
di Carmine Gallone, interprete Giovanna Ralli (Carmen di Trastevere). Questo
solo per ricordare che ispirata a Bizet o a Mérimée, in ambientazioni
classiche o in rifacimenti moderni, la storia della gitana più celebre e più
dark continua ad affascinare registi e spettatori.
Ma veniamo alla Carmen scaligera. Dirò subito che nonostante qualche dubbio
e qualche riserva sulla lettura della Dante, credo che la sua regia sia
straordinaria, per tanti motivi, il primo dei quali essere riuscita a
togliere dagli interpreti e dal coro il sublime ridicolo che sempre
accompagna gli spettacoli lirici, fino a costituirne quasi il codice.
Barenboim, in una con la regista, sceglie la tinta cupa, elude la levità
dell'opèra-comique, preferendo il pedale di accesi contrasti, timbri e
colori da melodramma, bellissimi, efficaci, con l'orchestra della Scala che
lo segue, prodigiosa. Sembra di ascoltarla per la prima volta, qualcosa di
nuovo, l'usura è lontana, l'emozione tanta. Grazie anche a una meravigliosa
debuttante, dal nome difficilissimo ma dalla simpatia debordante, Anita
Rachvelishvili, che sfodera una voce potente e adamantina: la regista la
lega a due corde che cadono dall'alto, e sono già le corde della sua
ananche. Certo, paciosa e riccia, non corrisponde alla Carmen "mitica",
variante femminea del prelibertino Don Giovanni, non dardeggia dagli occhi
neri - in Mérimée: "Era una bellezza strana e selvaggia, gli occhi grandi
avevano un'espressione voluttuosa e ferigna" - ma sopperisce con
un'interpretazione dinamica, carica di eros.
Straordinario per prestanza fisica e potenza vocale il Don José di Jonas
Kaufmann, già ammirato giorni prima nel Requiem verdiano, bravissimo anche
l'Escamillo di Erwin Schott, nel rendere la vanità e il vigore del suo
personaggio. Amare note invece per il fagottone immobile di Adriana Damato,
voce simpatica ma troppo flebile, inoltre punita dalla regista, che la fa
accompagnare sempre in scena, da un prete nero (mi hanno detto che è il
marito della Dante), chierichetti e pesante crocifissone (sembra quello di
Don Camillo); inoltre alla fine del terzo atto, la fa diventare la mamma del
Don José che muore in un bianco lettone (Emma, Emma, noi ti ammiriamo, ma
questo è troppo!). Strepitosi infine tutti i comprimari e il coro. Anche
perché Barenboim e la Dante hanno prediletto l'aspetto corale della vicenda,
tutto avviene in presenza di tutti, a parte pochi momenti, all'insegna di
sensuali irruenze e crudeltà ferine. Così l'opèra-comique è in ombra,
accolta invece la linea italiana che ne seguì, per colpa anche di complicate
vicende legate allo spartito originale (non si dimentichi che, dopo il
fiasco della prima, poco dopo moriva giovanissimo il geniale Bizet). In
ultima analisi, è vero quello che afferma Paolo Isotta: la Carmen come tutti
i capolavori, autorizza interpretazioni varie. E questa voluta dalla coppia
Barenboim-Dante, per quanto discutibile, è legittima.
Richard Peduzzi è il loro ideale scenografo, nello stringere la vicenda tra
case e muri di mattoni bruciati, in una lugubre e opprimente monocromia:
nell'atto finale, per esempio, due muri scuri chiudono la piazza sivigliana
e serrano la zingara, sola, in attesa dell'amante che la ucciderà; anzi è
lei stessa a fornirgli il coltello. Emma Dante è affascinata dal binomio
Amore/Morte, dall'irremeabilità del destino, dalla figurale pervicace
autodeterminazione della protagonista; così come è attratta dalla disperata
innocenza di quel brigadiere subito degradato - in Mérimée è figura assai
più complessa; inoltre è rimarcato il fatto che sia basco, e cioè cittadino
di secondo ordine come la zingara-fattucchiera cui si lega.
La Dante, insomma, ha costruito uno spettacolo di enorme impatto emozionale,
drammatico e mosso, dove tutto diventa credibile e veridico, perché
strabiliante è il modo con cui sa muovere gli attori. Quello che non approvo
invece è l'accentuazione cattolico-barocca: preti, tavole votive,
crocifissi, chierichetti, suore, carri funebri. Certamente sono parte della
storia spagnola, ma non appartengono a Mérimée, né a Meilhac e Halèvy, né a
Bizet. Comunque sono congeniali alla mediterraneità dissacrale del suo
teatro. I giovani del 4 dicembre l'hanno apprezzato, anche il pubblico vasto
della diretta nei cinema; non il solito loggione dei cosiddetti melomani
fanatici, che mezzo secolo fa fischiava la Traviata di Visconti-Callas. Un
applauso anche al sovraintendente Lissner, la stagione della Scala 2009/2010
si apre con spettacolo che ricorderemo a lungo.
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