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Ilaria Bellini
Beethoven: Fidelio, Paris, 08/12/2008
PRIGIONIERI DELLA LENTEZZA
Fidelio, l’unica opera teatrale di Beethoven, ebbe una stesura particolarmente tormentata e fu più volte rimaneggiata dal compositore che, oltre ad apportare tagli e rifacimenti, scrisse quattro diverse ouvertures, generando così varie prassi esecutive.

Nella nuova produzione in scena all’Opéra Garnier il direttore Sylvain Cambreling propone l’ordine originale, di cui ripristina i numeri iniziali, e sceglie come ouverture la poco eseguita ”Leonore I” che, a differenza delle altre, non ha il materiale tematico che lascia presagire gioia e libertà, essendo caratterizzata da temi che evocano la solitudine, l’inquietudine e la tristezza. La scelta non aggiunge molto dal punto di vista drammatico e il quartetto, una delle pagine più belle dell’opera, posto alla fine di una progressione un po’ troppo schematica (aria di Marcellina, duetto Marcellina-Jaquino, terzetto Marcellina-Jaquino-Rocco) perde parte della magia.

Il libretto di Fidelio, non all’altezza di una musica sublime e stilisticamente uniforme, è da sempre un “punto critico” e rende evidente la scollatura fra la prima parte, un Singspiel popolare in cui si alternano elementi tragici e comici, e la seconda decisamente seria e drammatica. Per raggiungere una maggiore coerenza stilistica, questa produzione ha introdotto, dietro incarico del direttore dell’Opéra Gérard Mortier, nuovi dialoghi appositamente riscritti da Martin Mosebach. I nuovi testi conferiscono maggiori unitarietà e analisi psicologica (funzionando come momenti di riflessione in cui i personaggi si confrontano con le proprie pulsioni e “prigioni”: l’amore, il potere, la classe sociale, una piccola o grande utopia), ma risultano troppo lunghi e ridondanti e inevitabilmente allentano la tensione, distogliendo l’attenzione dello spettatore. Qualche momento riuscito c’è: prima del duetto “Oh namenlose Freude” Florestano pone a Leonora una serie di domande dalla logica stringente (come è riuscita a trovarlo, se sapeva dell’arrivo del ministro, come pensava di fuggire, cosa ha fatto per lui) a cui la sposa completamente annichilita, in un forte crescendo drammatico risponde con una serie di “non lo so”, per sussurrare alla fine “Non ho fatto niente, Florestano mio”. E l’inno alla gioia che segue è una conferma ancora più forte di un amore radicale e irrazionale.

La regia di Johan Simons cura la recitazione, il parlato (peraltro amplificato per dare maggiore risalto ai testi di Mosebach) e sfrutta al meglio le potenzialità di un cast di ottimi cantanti-attori, ma il primo atto, marcato da un largo uso di pause e silenzi, diventa interminabile.
L’ambiente scenico di Jan Versweyveld ricrea un carcere hi-tech bianco come un ospedale con una guardiola sulla sinistra con video a circuito chiuso e porte che si aprono automaticamente con tastiere e microchip, come l’avveniristico portellone bianco al centro della scena che si solleva per portare la luce ai prigionieri. Un mondo chiuso, asettico e asfittico dove le luci artificiali suggeriscono con gelido realismo l’atmosfera della prigione di stato. Fredda e accecante la luce della grande lampada da sala operatoria che sovrasta il corpo martoriato di Florestano, bendato e senza vita; efficaci le ombre cinesi in cui la gigantesca ombra di Pizzarro incombe su quella di Rocco fino a schiacciarla. La lunga scalinata metallica che dal centro della stanza scende nei sotterranei diventa l’elemento caratterizzante del secondo atto e, oltre ad accompagnare la discesa di Rocco e Leonore nelle viscere della prigione, concentra lungo la sua struttura buona parte del gioco scenico.

La direzione musicale è il punto debole della produzione e inevitabilmente compromette il risultato finale. Al di là delle scelte musicali più o meno valide, manca alla direzione di Sylvain Cambreling ogni tensione e fluidità e la musica perde il ruolo di protagonista e generatrice di azione. I tempi sono talmente lenti che occultano, oltre la perfezione della struttura beethoveniana, anche l’energia, lo slancio e l’anelito presenti nella partitura. Quanta noia in questo Fidelio così lento e sempre uguale, privo di forza sinfonica e povero di suoni e di dettagli! L’orchestra dell’Opéra ha conosciuto serate migliori e si avvertono, accanto a una generale secchezza di suono, evidenti imprecisioni. Molto meglio per intensità e tensione drammatica la prova del coro diretto da Winfried Maczewski.

Angela Denoke ha indubbie doti attoriali e interpretative e la sua Leonore, intensa e coinvolgente, domina i recitativi, creando un personaggio naturale e credibile. Purtroppo i tempi lenti non agevolano il canto e mettono in luce le difficoltà d’intonazione di una voce che si rivela, nonostante l’espressività di fraseggio, decisamente affaticata.
Jonas Kaufmann, invece, risolve alla perfezione la scomoda parte di Florestan e conferma di essere un Heldentenor (e non solo) su cui puntare nei prossimi anni. La voce brunita quasi baritonale è solida, magnifico il “Gott” di apertura così potente, inquietante e disperato, davvero notevole il fraseggio scolpito dalla splendida dizione e dalla capacità di variare dinamica superando agevolmente i passaggi più spinti, sfumando dall’eroico al lirico, al patetico, con stile e nobiltà. Kaufmann /Florestan è talmente segnato dalle torture e dalla prigionia che il corpo dilaniato è incapace di riprendersi e di unirsi alla gioia e, anche se è stato “salvato”, rimane il dubbio che sia ormai troppo tardi. Un’interpretazione coerente e logica che getta forti dubbi sul potere dell’amore sottolineando la dimensione politica e l’orrore di ogni tirannia.
Franz Joseph Selig ha voce morbida e profonda che ben si adegua ai tempi indugianti e tratteggia un Rocco autorevole e sofferto avvolto da un’aura, se non sacra, quasi oratoriale. Alan Held con voce piena dà buon risalto a un Pizzarro duro e inquietante, la cui schizofrenia è moltiplicata da risate isteriche e da lunghi monologhi ai limiti del parossismo. Julia Kleiter è una Marzelline dalla bella voce lirico-leggera, penalizzata da un’orchestra pesante e da un monologo sugli uomini che si vorrebbe ispirato, ma risulta ridicolo. Ales Briscein è uno Jaquino di buona vocalità. Non particolarmente incisivo, ma corretto il Don Fernando di Paul Gay.

Alla fine della lunga serata applausi di cortesia frammisti a sparute contestazioni al direttore e apprezzamenti ai due protagonisti.






 
 
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