Opera Disc
Maugham
Bizét: Carmen, Zurigo, 28/06/2008
Carmen
La nuova Carmen allestita in giugno dall'Opera di Zurigo più che "decontestualizzata" (come è capitato di leggere), è piuttosto "destrutturata". Non solo Hartmann ha fatto sparire il benché minimo accenno al colore locale, ma il palcoscenico appare completamente spoglio: c'è soltanto una candida pedana circolare chiusa da un fondale dello stesso colore. Anche l'attrezzeria è ridotta al minimo. Sulla scena vediamo un unico oggetto che cambia di atto in atto; un ombrellone con sopra scritto Polizia nel primo, due paletti e un festone di lampioncini nel secondo, una gigantesca e livida luna piena nel terzo e un ulivo massiccio e contorto nel quarto.

Si sa come il palcoscenico spoglio rivesta un'attrattiva speciale per un regista; si sa però anche come la scena nuda sia molto difficile da gestire quando manchi un lavoro capillare sulla recitazione dei cantanti e del coro.

Mattias Hartmann ha superato brillantemente la prova offrendoci uno spettacolo raffinato, intelligente e, soprattutto, chiaro nelle intenzioni. La narrazione è fluida, la vicenda scorre senza intoppi, le forzature sono poche e soprattutto non troviamo quel fastidioso procedere per simboli caro a certi registi di area nordeuropea.

Al centro delle costruzione drammaturgica si staglia la figura della Kasarova.
Maligni farfarelli nazionali la davano ormai a finecorsa ma sono bastate poche note per capire di quanto le esequie premature vadano, soprattutto nell'opera, sempre verificate. Non solo la Kasarova è in buona forma vocale, ma si qualifica come una delle più interessati Carmen degli ultimi vent'anni. Senza dubbio la voce si è irrobustita e la saldatura tra il celebre registro grave e il medium non è così fluida come un tempo; ma di certo non basta uno “scalino” vocale un po' troppo pronunciato per mortificare un'esperienza teatrale di tale interesse. Tra l'altro la Kasarova sfrutta a fini espressivi questa spigolosa ruvidezza vocale, ritagliandosi un personaggio, cupo, introverso, scostante, sobrio negli accenti e nei movimenti. Questa della Kasarova è una Carmen stilizzata, diresti disegnata a carboncino, i cui tratti aguzzi sia visivi che canori ricordano certe foto in bianco e nero dell'ultima Dietrich.

Ovviamente il personaggio non poteva tenere se vicino a lei non ci fosse stato uno straordinario artista come Kaufmann. Rispetto al debutto londinese, nella relativamente piccola sala di Zurigo, il tenore tedesco rifinisce ulteriormente un personaggio che gli è quantomai congeniale. E il risultato è magnifico.

Hartmann ce lo presenta come un bambinone impacciato e goffo, militare di primo pelo arrivato dalla provincia che immaginiamo perfettamente istruito su cosa fare e cosa non fare dalla mamma. I pantaloni della divisa hanno una piega impeccabile, i capelli sono pettinati con la riga da una parte e non mancano gli occhialoni da vista massicci e spessi in puro stile Nerd. Al primo colloquio con Zuniga ci accorgiamo che tutti lo considerano poco e gli affidano quindi compiti di basso profilo. Il nostro José appare infatti con un fascio di giornali sotto il braccio da cui goffamente lascia cadere una rivista pornografica tra lo scherno dei colleghi. Dopo il cambio della guardia, José si siede sotto l'ombrellone, apre un tavolinetto, tira fuori da un cestino un piccolo ventilatore da passeggio e comincia a compilar moduli con la malinconica compunzione del burocrate. L'incontro con Carmen è quindi spiazzante. Nessun atteggiamento lascivo da parte della Kasarova né alcun fremito di sensualità repressa da parte di Kaufmann. I due si fronteggiano quasi immobili. José guarda Carmen come istupidito perché del tutto incapace di decifrare quel misterioso idioma con cui si esprime questa magnetica e matura gitana. E' un tipo di donna che José non conosce, una donna che non fa parte del suo bagaglio culturale e morale. Carmen, spazientita, si limita quindi a un piccolo, ma decisivo gesto: gli toglie gli occhiali. Da quel momento José non è più lui. Vede finalmente il mondo per quel che è e la Kasarova, beffarda e intenerita insieme, lo muove come un burattino.

Ora il pensiero di Hartmann è chiarissimo. Carmen è il simbolo di quel doloroso ma necessario percorso che tutti devono intraprendere per passare dall'adolescenza alla maturità. Carmen non “rovina” José perché lo seduce; lo “rovina” perché gli propone una scelta: crescere. E José è incapace di scegliere perché fino ad ora altri l'hanno fatto per lui. Il “Près des remparts de Séville” così come lo propone la Kasarova, non ha nulla di seducente né di malizioso perché la sua Carmen sta facendo ben altro che tendere una trappola erotica a un giovane sprovveduto. Lei sta proponendo a José un'alternativa di vita che, allettante e al contempo minacciosa, arriva a sconvolgerlo sia fisicamente che spiritualmente. Il finale primo è infatti costruito da Hartmann al rallentatore, senza nessuna fuga precipitosa, nessun risata della folla, nessun pandemonio. Tutto è visto attraverso gli occhi di un José ancora del tutto incapace di capire cosa gli sia successo. Carmen esce di scena lentamente lanciando al dragone il legaccio che le stringeva i polsi ormai completamente inutile.

Il disegno di Hartmann è ancora più chiaro nel secondo atto. Quando José raggiunge Carmen da Lillas-Pastia ci rendiamo conto che il carcere non ha operato nessun cambiamento in lui. Questo José è ancora goffo nei movimenti, vagamente ottuso e non ha minimamente capito con chi abbia a che fare. Kaufmann è molto bravo; rifiutando da grande artista qualunque smargiassata tenorile si inventa un timbro vocale volutamente opaco e un accento straniato e sconvolto. Quando si avvicina a Carmen ci rendiamo conto dell'incapacità di maturare del personaggio. E' goffo, brancica Carmen come un adolescente potrebbe avvicinare una donna matura, alterna richieste di tenerezze a goffi palpeggiamenti, diventa addirittura violento con i modi di un bambino che non riesce ad esprimere (e quindi a far capire) il proprio punto di vista; di conseguenza non ha altra strada che picchiare e strattonare. Un disastro. Carmen capisce immediatamente in che gioco si è andata a cacciare e prende le distanze. Lo stuzzica, lo irretisce, lo provoca, lo rifiuta, gioca con lui al gatto e al topo, ma si guarda bene dal lasciarsi coinvolgere. Lo sguardo freddo della Kasarova, la canzone con le nacchere scandita tramite un dominio perfetto dell'articolazione ritmica della frase quasi fosse un lavoro di stanca routine, la rigidità con cui affossa qualunque approccio fisico del dragone, ce la mostrano indifferente ma anche dubbiosa e interrogativa. Perché adesso è Carmen che non capisce la lingua di José; lui ora è tutto passione infantile, emotività incontrollata, dolore nato dal mettere in discussione tutte le certezze che l'avevano sostenuto. Il rapporto dialettico tra i personaggi è chiaro: se la tragedia di José nasce dall'incapacità di mantenere il controllo, quella di Carmen nasce dall'incapacità di perderlo. Carmen, anche a costo di rischiare la vita, “deve” essere sempre padrona della situazione. Kaufmann affronta la romanza del fiore con straordinario candore (per i vociomani, smorza il si bemolle) e una dialettica nell'uso dei colori e dei ritmi sorprendente. Ora la situazione è ribaltata rispetto al primo atto: adesso è José che propone a Carmen una scelta di vita, investendola con una passione e un carico di emozioni a lei completamente estranei. L'arrivo di Zuniga scompiglia le carte. I contrabbandieri sono risoluti e pragmatici; sgozzano con un rasoio Zuniga e fuggono sulle montagne. L'omicidio del superiore è un segnale devastante per la mente di José. Uccidere chi ti intralcia il cammino è una soluzione veloce e tutto sommato semplice per risolvere un problema. Mentre il coro festante inneggia a una “libertè” che in questo contesto mai ci è apparsa così ironica e paradossale, Kaufmann resta al proscenio con gli occhi sbarrati, travolto da questi avvenimenti più grandi di lui e la Kasarova, immobile, sconvolta, quasi spenta, fissa spaventata il ciclone che ha messo in moto.

Il terz'atto si è rivelato meno riuscito. Immagino che la presenza invasiva di Micaela e di Escamillo (personaggi che nella visione di Hartmann paiono strumentali alla vicenda), i cori dei contrabbandieri, l'avanti e indietro dei figuranti, siano a torto visti dal regista quali intoppi in una narrazione che invece fino ad allora era quantomai serrata. La stessa Kasarova mi è sembrata più generica sia come fraseggiatrice che come interprete. Nella scena della carte ad esempio, pur incisiva e scabra, il contralto bulgaro tende a strafare ricorrendo troppo al registro di petto al fine di sottolineare la terribilità della situazione. Kaufmann invece mantiene alto lo sviluppo del suo personaggio. Spogliato ormai della divisa e dagli atteggiamenti da bravo figliolo, questo José adesso ha l'abbigliamento cafone e aggressivo dei bulli di periferia. Canotta sbracciata, coltello nella tasca posteriore, occhio maledetto. Ora Kaufmann è più sciolto nei movimenti, la linea vocale ha una ruvidezza scostante come si addice a un attaccabrighe, gli acuti sono insolenti, il fraseggio è sempre leggermente e volutamente sopra le righe. Purtroppo nel finale III la presenza di Pertusi raffredda non poco il montare dell'emozione. Il cantante parmense, irreprensibile nel canto, addirittura spavaldo nell'affrontare tutte le difficoltà della parte, non convince minimamente come attore. Fermo al limite della stasi, con un gioco scenico limitato a pochi, stereotipati movimenti, con un senso del fraseggio anche questo finalizzato a offrirci il solito Escamillo beffardo e seduttore, Pertusi sembra, nella duello, capitato per caso sul palcoscenico senza nessuna prova di regia. Discorso simile per la Rey. Fraseggiatrice incolore e vocalista non sempre irreprensibile, si è limitata a “fare” l'aria con la diligenza di una brava studentessa di canto.

Il quart'atto invece è perfettamente riuscito. Liquidata da Hartmann la sfilata dei Toreador quale momento corale di passaggio, arriviamo allo scambio di battute tra Carmen ed Escamillo. Pertusi ovviamente canta benissimo ma è la Kasarova che sorprende. Lasciati da parte gli atteggiamenti duri e scostanti degli altri atti, in questo contesto Carmen si ammorbidisce, l'accento diventa carezzevole e ci sembra così di intravedere, in un passaggio direi quasi voyeuristico, la donna innamorata, la femmina appagata che finalmente ha di fronte a se un uomo della sua specie. Escamillo sarà senza dubbio cinico, disincantato e amorale; ma parla la lingua di Carmen. Il contrasto con l'entrata in scena di José è formidabile: non abbiamo di fronte a noi il ritratto di un uomo distrutto, ma, ancora peggio, di un bambino distrutto. La voce, l'accento, il ritmo sfilacciato del canto di Kaufmann sono calcolati al millimetro. Con lui non solo ogni nota di questa scena diventa espressiva, ma anche ogni pausa si carica di significato trasformandosi nell'ansimare nervoso di una persona che ormai non riesce più a controllarsi. Tutto il duetto è affrontato da Kaufmann senza superare mai il mezzoforte, con lo sguardo fisso al suolo, incapace di reggere gli occhi di Carmen. Le risposte taglienti della Kasarova cadono nel vuoto; ancora, ci dice Hartmann, incapacità di comunicare, ancora differenze di linguaggio e di progetti di vita. José continua imperterrito come un bambino a sgranare la sua cantilena pregando, scongiurando, incapricciandosi, chiedendo attenzioni e tenerezze. E Carmen lo rifiuta stancamente, quasi spossata (la Kasarova è straordinaria nel variare d'intensità ogni entrata) e la sua rabbia sorda è solo un tentativo di liberarsi una volta per tutte di quel goffo pupazzone ormai diventato solo un grumo di nervi scoperti. La morte arriva rapida come un fulmine. Anche qui Kaufmann e Hartmann rifiutano l'enfasi e la retorica del classico accoltellamento tenorile; l'arma diventa un pungiglione e José si muove veloce e dispettoso come una vespa. Una pugnalata data quasi per ripicca, così come un bambino può dare un morso o un pizzicotto. In un angolo della palcoscenico gli occhialoni che José indossava al primo atto, definitivamente sbriciolati.

Dispiace che una regia così sofisticata e interpreti così intelligenti non trovino adeguato sostegno sul versante più strettamente musicale. Welser-Möst dirige con mano pesante e poca fantasia nonché si rende colpevole di una sciagurata scelta editoriale. Non solo toglie dalla naftalina quel pezzo di Medioevo che è l'edizione Guiraud con i recitativi musicati, ma la rimpolpa con tralci dell'edizione Oeser arrivando addirittura a inserire la semi sconosciuta Pantomima di Moralès per poi tagliare, chissà perché, l'”À deux quartos!” che apre la scena finale. Il risultato è un lavoro di taglia-e-cuci che senza dubbio Welser-Möst avrà costruito con buone ragioni ma che a me, sinceramente, sono sfuggite.

Questo allestimento dovrebbe traghettare sul palcoscenico della Staatsoper di Vienna. Temo che uno spazio così ampio possa mortificare una regia come questa tutta costruita sul dettaglio e sulla sottrazione piuttosto che sull'accumulo. Mi auguro che Hartmann sappia adattarla e, soprattutto, che Welser-Möst opti per la versione con i recitativi parlati che porterà, ne sono convinto, ad esiti ancora più convincenti.






 
 
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