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Amadeus, novembre 2014 |
di Valerio Cappelli |
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L'opera è sogno |
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Mette d'accordo pubblico e critica, tutti pazzi di lui. Moderno e
sensibile, affascinante e antidivo, il tenore del nuovo secolo si racconta
L'incontro con Jonas Kaufmann si svolge in un ristorante affacciato sui
tetti di Trinità dei Monti, la Roma più glamour. Attorno al nostro tavolo,
fotografi, telecamere, cineprese. Ci "prestiamo" a fare da... contorno
(visto il luogo) al video che arricchirà il primo cd (per la Sony) dedicato
dal tenore tedesco a Puccini.
«Sarà il primo e anche l'ultimo (spiega
nel suo perfetto italiano), abbiamo inserito, con Antonio Pappano e
l'Orchestra di Santa Cecilia, praticamente tutte le arie che Puccini ha
scritto per tenore, le due arie di Turandot e La bohème, Tosca, Edgar, La
rondine, La fanciulla del West, Tabarro, Butterfly, Manon Lescaut... Non c'è
materiale per un secondo album».
Kaufmann, nato a Monaco di Baviera
45 anni anni fa, conferma quello che si dice di lui: l'affabilità, la
cortesia, il suo modo da antidivo. Quando ride, dagli altri tavoli si girano
verso di noi: dai decibel si capisce il suo mestiere. Kaufmann è il tenore
che mette d'accordo tutti, è uno dei pochi che viene amato senza riserve
alla Scala: dai melomani, dalle donne di ogni età, dalla critica.
In questi giorni lei è a Roma, e vi tornerà il 27 febbraio per
l'Aida diretta da Pappano.
«Sì, la incideremo ma ci sarà
anche una serata aperta al pubblico, in forma di concerto. All'inizio della
carriera pensavo che fosse sbagliato non andare in versione scenica. Mi
sono ricreduto perché, alcune volte, le regie non aiutano lo spettacolo. Io
non distinguo fra tradizione e innovazione. La cosa più importante è rendere
comprensibile la storia».
Lei dice spesso che l'opera è
sogno, cosa intende esattamente?
«Che per la realtà bastano
i telegiornali. Non esiste più l'immaginazione del pubblico, noi artisti
abbiamo bisogno di far entrare la gente in un mondo misterioso. Nessuno
legge più, tutti giocano al computer e nemmeno ci si parla più, ci limitiamo
agli sms. I primi libri che abbiamo letto, con i quali ci siamo formati,
quelli di carta intendo, che fine faranno? Per questo l'opera è sogno».
Di Roma conserva anche ricordi non artistici...
(Sorride) «Avevo diciotto anni, ero a cena in un ristorante con alcuni
amici, abbiamo incontrato delle ragazze e le abbiamo inseguite fino
all'albergo. Gli amici mi hanno incoraggiare a cantare. L'ho fatto. Eravamo
per strada, in via XX Settembre. La gente mi guardava, si fermarono le auto,
le ragazze sparirono, ci salutarono dalla finestra della loro stanza. Fine
della storia. Per fortuna a Roma le sorprese non finiscono mai. Sto per
andare per la seconda volta in pochi giorni ai Musei Vaticani. Tutti, non
puoi vederli in una sola volta».
Lei ama l'Italia, è la sua
seconda patria.
«Lo racconto sempre, ci passavo le vacanze
con la mia famiglia, dalla Romagna alla costa jonica. Ho dato ai miei due
figli nomi italiani, Fabio e Matteo. Mio nonno amava l'Italia, la conosceva
meglio della Germania».
Suo nonno ricorre nei suoi discorsi.
«È stata una figura fondamentale, si chiamava, senza troppa originalità,
Fritz. Amava la musica, suonava il pianoforte, canticchiava tutte le parti.
La musica classica è sempre stata presente nella mia vita. Mio padre però
temeva per il mio futuro e quindi vedeva la musica come un hobby per me,
avrebbe preferito che diventassi matematico. Voleva per suo figlio un
mestiere meno aleatorio, sapeva che io fin dall'adolescenza avevo desiderio
di formare una famiglia. E poi non c'erano molti soldi in casa, lui veniva
dalla Germania dell'Est».
Da dove esattamente?
«Erfurt, la capitale della Turingia: riuscì ad attraversare la cortina e
a rifugiarsi nella parte occidentale. Negli ultimi anni prima della
costruzione del Muro a Berlino si poteva prendere un treno e andare a fare
shopping o visitare gli amici dall'altra parte. Anche la famiglia di mamma
viene dall'Est, Halle e Lipsia».
Come raggiunsero Monaco?
«Fu una coincidenza, la mia famiglia si ritrovò in un villaggio vicino a
Monaco in cui venivano radunati i rifugiati, come avviene oggi per gli
immigrati e i profughi a Lampedusa. Per la mia formazione è stato decisivo
anche l'altro nonno, da parte della famiglia di mia madre, fu lui a
finanziare per due anni le prime lezioni di canto. Se questo è il tuo sogno,
diceva, devi provare».
Suo nonno Hans ha vissuto i leggendari
anni '20 di Berlino, quelli di cui lei ha appena restituito l'atmosfera fra
cabaret e operetta nel cd Du bist die Welt fur mich pubblicato da Sony
Classical.
«È il titolo di una celebre canzone scritta da
Richard Tauber, leggendario tenore tedesco: in italiano potremmo tradurlo
così, Tu sei il mondo per me. Voglio dire, sei il massimo per me. Una sorta
di amoroso abbraccio virtuale. Mio nonno mi raccontò di essere stato trovato
all'alba su una panchina, nudo, con un foglio di giornale sopra le parti
intime, dopo una notte di baldoria. Era la Berlino della follia, della
leggerezza, dei caffè letterari pieni di fumo e birra, di Marlene Dietrich.
Erano gli anni di Léhar, Kalmann, Stolz, Abraham, Korngold, Heymann, Tauber
appunto; erano gli anni prima del buio nazista».
Capitolo
Scala. In ottobre lei ha dovuto rinunciare per una laringite alla Messa da
Requiem diretta da Riccardo Chailly...
«Mi è dispiaciuto
moltissimo. Ma quello con la Scala è un percorso che stiamo costruendo,
tornerò a Milano in giugno per Cavalleria rusticana e abbiamo altri
progetti... Ma non posso rivelarli ora».
La Scala ha vissuto
mesi agitati: le controverse coproduzioni col Festival di Salisburgo decise
dal sovrintendente Pereira ancora prima del suo mandato, il tenore Roberto
Alagna che ha rinunciato a tornare a Milano.
«Ho avuto
ottimi rapporti col pubblico e col teatro scaligero. I loggionisti sono veri
appassionati. Quanto a Pereira, è la persona giusta al posto giusto. Nessuno
è bravo come lui a trovare soldi, e la Scala ha bisogno di sponsor».
In Germania la crisi economica come si fa sentire nella vita dei
teatri?
«A parte il fatto che hanno chiuso tante piccole
orchestre sinfoniche, i teatri di provincia si fondono e da due orchestre se
ne forma una. Le orchestre di prima classe non vengono toccate dalla crisi,
la Baviera è una terra ricca, l'opera ha un buon sostegno dallo Stato.
Bisognerà vedere le conseguenze della crisi tra dieci anni».
Tra i direttori d'orchestra, lei lavora spesso con Antonio Pappano...
«Ecco, lui è straordinario perché è pronto a cambiare idea, andando
anche contro le proprie convinzioni, se pensa che sia giusto per il
risultato finale. Mi colpisce il suo battere rotondo, che ti dà la
possibilità di cambiare idea in un secondo. Pappano ha rinnovato a Santa
Cecilia la tradizione di fare le opere in forma di concerto, dando alla sua
Orchestra la malinconia e il fuoco, la morbidezza e la passione. Mi piace
lavorare con i direttori antidivi, con cui si stabilisce un'intesa umana».
È vero che ha studiato recitazione?
«Sì, ho
anche fatto un film che è stato da poco ospite al Festival di San Sebastian,
in Spagna. Mi si vede in una sola scena, non avevo tempo. Si intitola The
Giacomo Variations. Al regista, un austriaco, si chiama Michael Sturmiger,
spiegai che ero libero un giorno e mezzo. Interpreto un conte polacco che
sfida a duello Giacomo Casanova, interpretato da John Malkovich. Nella mia
scena sono invischiato in una trappola amorosa nel camerino di una cantante,
si vuole creare uno scandalo a tavolino».
Ma com'è arrivato a
girare il film?
«Un famoso pittore tedesco, Georg Baselitz,
mi diede da leggere le Memorie di Casanova. Ero scettico, lui ha insistito:
vedrai, ti sarà utile per capire come funzionava l'opera a quell'epoca.
Aveva ragione. Il regista ha saputo che stavo leggendo Casanova e mi ha
detto, era da tempo che volevo lavorare con te, ora non puoi più scappare».
Un giornale ha scritto che lei vorrebbe avere un ruolo nella
saga di 007.
«Falso. Piuttosto, mi piacerebbe cantare una
canzone nella colonna sonora di James Bond, come veicolo promozionale per
avvicinare l'opera alla massa e far capire la qualità delle voci classiche,
senza amplificazione».
Le manca un ruolo da cattivo in scena?
«Eccome! Al novantanove per cento i tenori sono gli innamorati, le
vittime. Giusto il Duca di Mantova nel Rigoletto... Sì, mi mancano Scarpia o
lago».
Quando le danno del sex symbol, la cosa la
infastidisce o la lusinga?
«È complicato, se è un
complimento espresso con gentilezza fa piacere. Mi ci sono abituato. Nei
primi tempi mi riduceva a un'immagine da cartolina. Il canto è la cosa più
importante, poi viene la capacità di agire in palcoscenico come attore».
Lei ha vissuto una crisi vocale da giovane, nel 1995.
«Ho studiato a Monaco, avevo una voce chiara da tenore leggero, molto
tedesco. Nessuno ti può guardare dentro la gola e capire come risuona la
voce. Nell'apprendistato ho cercato un suono. Durante gli studi sei
protetto, poi arrivò il primo contratto a Saarbrücken, cantavo sei giorni
alla settimana, e dopo un anno, per un piccolo ruolo nel Parsifal, persi la
voce. Mi salvò un maestro di canto, Michael Rhodes: libera la tua voce, mi
disse, è più scura, più profonda, devi collegarla al corpo e non lasciarla
isolata in gola».
Quale considera il suo vero debutto?
«La traviata del 2006 al Metropolitan con Angela Gheorghiu. Alla fine mi
girai, pensando che alle mie spalle fosse spuntato Plácido Domingo. Invece
gli applausi erano per noi. Il pubblico era tutto in piedi. Quella serata
rispecchia il libro che mi hanno dedicato, appena uscito in Germania:
Veramente si parla di me? Il titolo l'ho voluto autoironico, non bisogna mai
prendersi troppo sul serio».
Ma come si fa a pianificare e
costruire una carriera?
«Oh, è la cosa più difficile. Le
dirò una cosa controcorrente. Non posso sapere cosa è giusto per la mia voce
da qui a cinque anni, ci vorrebbe più flessibilità. Sono impegnato fino al
2020 e non è una buona idea. Allora, si accusano i teatri italiani di
organizzare le stagioni un anno per l'altro. Ma io dico che fate bene voi! È
come quando compri un'automobile. Se la prenoti e la consegnano dopo sei
mesi te la sei dimenticata, magari ti piace un altro modello. Ma quel giorno
poi deve arrivare. Forse il problema in Italia è che nessuno si fida più di
un contratto».
Sul palco si sente invincibile o vulnerabile?
«Assolutamente vulnerabile, siamo esposti nelle nostre emozioni più
intime, è come spogliarsi».
Gliel'hanno mai chiesto, di
spogliarsi in scena?
«Una sola volta, un regista, per Moses
und Aron di Schönberg. Ero giovane, ma sono stato pronto. Gli ho risposto:
tu sai che in quella scena, è vero, c'è il fanciullo nudo. Ma sono previste
anche quattro vergini nude. Allora, se le metti, mi spoglierò anch'io. Il
discorso è finito lì».
Ascolta musica rock? «Da
giovane i Dire Straits e Alan Parsons, ora Adele. Adoro l'opera, ma è pur
sempre lavoro. Il rock mi distende».
Lei si è definito «un
terrone tedesco».
«In Italia si parla di Nord e Sud, ma
guardate che è lo stesso in Germania. C'è un'enorme differenza tra Amburgo e
Monaco. Ho l'impressione di essere più vicino, nella mentalità, nel modo di
vivere, a Milano che ad Amburgo».
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