Classic Voice, Jan 2011
Elvio Giudici
 
Jules Massenet, Werther
 

Installatosi sulla poltrona lasciata libera da Gérard Mortier, Nicolas Joel fece subito capire quanto all'indietro, sia per ciò che riguarda i titoli sia ancor più per il modo di portarli in scena, avrebbe riposizionato la "sua" Opéra. Inaugurazione della prima stagione con Mireille; a seguire, Andrea Chénier (due titoli che Mortier piuttosto sul suo cadavere); poi, archiviazione del Werther di Jürgen Rose che era brutto ma aveva appena un anno di vita, e importazione dal Covent Garden di questo che non solo è molto più brutto esteticamente, ma oltremodo irritante perché sulla sua congenita, decrepita vecchiaia viene iniettato un botox di finta modernità che non la ringiovanisce punto ma anzi la rende ancor più sgradevole. Quel moderno à la page del palcoscenico vuoto (ma che usa anche la sala: il duetto del chiaro di luna principia senza nessuna ragione nei corridoi laterali, poi i due aprono una porticina, spariscono e ricompaiono in palcoscenico: quel frisson!) che i registi veri impiegano per riempirlo coi personaggi e Jacquot, regista come potrebbe esserlo un Pier'Alli qualunque, ci piazza invece manichini che portano a spasso non dei costumi ma dei vestiti: e allora, un po' di verzura o di suppellettili distrarrebbero quantomeno lo sguardo, ogni tanto. Per giunta, in video le cose peggiorano giacché Jacquot si piazza anche dietro le telecamere, con lo stesso spirito che animava la sua orrenda Tosca con la supercoppia non ancora scoppiata Gheorghiu-Alagna: si vedono i personaggi in quinta che passeggiano, fanno segni scaramantici, salutano con la manina, si stirano le vertebre del collo, cose così che indubbiamente molto ci dicono in merito ai personaggi. Una schifezza: punto.

Poi c'è la direzione. Joel - ex sovrintendente del Capitole di Toulouse - l'affida a Plasson, ex direttore musicale tolosano in avanzato viaggio verso le ottanta primavere, che approda così per la prima volta alla Bastille, tornando a Parigi dopo un Montségur di Marcel Landowski all'Opéra Garnier nel lontano 1987. Plasson il Werther lo conosce anche capovolto, e non si può certo dire lo diriga male. Ma lo dirige come Antonino Votto dirigeva Verdi: nei secoli fedele come l'Arma, sempre uguale, sempre un po' più pesante dell'ultima volta, solfeggio impeccabile, metronomo in gloria e fantasia zero al quoto.

Però c'è il cast. Che, come accadeva cinquant'anni fa ma con mezzi e significati assolutamente di oggi, assorbe su di sé l'intera serata. A cominciare dal protagonista. Jonas Kaufmann è tra i capofila di quel gruppo di cantanti moderni che pian piano stanno trasformando (anzi, altrove ormai l'hanno già trasformato) il modo d'essere del teatro musicale: tecniche alquanto individuali, plasmate sulle proprie caratteristiche fisiologiche onde sfruttarle al massimo ai fini espressivi che diventano la ragion d'essere del loro stare in scena, facendo blocco con un linguaggio gestuale che annulla ogni residua differenza tra teatro musicale e di parola. Dunque, irreprensibile vocalmente, al modo d'un Kraus tanto per dire, il Werther di Kaufmann non è: diverse note non galleggiano sul fiato ma ricevono irrituali spinte di gola, e diversi pianissimi si posizionano sull'incerto confine col falsetto, cosa che dà ai nervi - comprensibilmente, in sede teorica - ai puristi a oltranza. Il fatto è che il luogo dove crescono i puristi non è il teatro bensì quel muro del pianto che circonda il cimitero degli elefanti canori: su cui poggiare il fonografo a tromba onde perseverare nella celebrazione acritica del passato che, come ognun sa, è sempre, sempre, "a prescindere" migliore del presente. Invece, questi artisti moderni di cui Kaufmann fa parte (citando un po' nel mucchio sempre in crescita, gli altri si chiamano Dessay, Bartoli, Keenlyside, Terfel, Netrebko, Michael, Denoke, Meier, Stemme e via elencando) è soprattutto al teatro che badano.

Sicché il suo Werther, Kaufmann lo costruisce dando significato tutto particolare alle lacrime che del personaggio sono la cifra: mai esteriori e nemmeno "furtive", di quelle con la smorzatura sottoli neata quinci e quivi, tutto buone
maniere e sospiri delicati. Piut tosto, sono le Gefrorene Tränen, lacrime ghiacciate, versate dal romantico Viandante durante il Viaggio d'inverno di Schubert: un diverso che si pone o è stato posto al di fuori della società, che soffre in una solitudine rocciosa, introversa, di tanto più lancinante in quanto per un fulmineo istante ha conosciuto il sorriso e la speranza. Quella sua voce grande, scurissima (molto adatta quindi alla scrittura di Werther, non per caso adattata da Massenet con minimi tocchi a una tessitura baritonale), che si piega a fredde sfumature impalpabili che paiono sospese sulle distese nebbiose dipinte da Friedrich, e subito dopo s'espandono in abbandoni cui la incisiva timbratura manda a mille la sensualità. Voce che cesella la parola dandole inflessioni e colori sempre diversi, sempre nitidi, sempre appropriati a definire una ulteriore tappa d'un percorso psicologico di evidenza e logica teatrale rabbrividenti. Capace di liberare ondate rapinosamente passionali che subito s'increspano di spume melanconiche nient'affatto stilizzate in quello stile nobile caro agli interpreti d'antan, bensì disperate: e in misura direttamente proporzionale all'assoluta assenza d'ogni scomposto birignao (un ultimo atto, al riguardo, tutto sul filo d'un sospiro, tutto un "cosa avrebbe potuto essere" nient'affatto goethianamente metafisico ma al contrario carnalissimo). Aggiungiamoci una presenza scenica di magnetismo unico, quello "stare là" sufficiente di per sé a definire personaggio e situazione anche senza la gestualità, peraltro convincente persino in una totale non-regia come questa: se questo è stato il debutto nel ruolo, c'è da chiedersi cosa potrebbe diventare con alle spalle un regista vero e un direttore dotato di fantasia oltre che metronomo; ma per intanto, meno male che il video c'è.

Fortunatamente, poi, non abbiamo un one-man-show bensì un cast di rara omogeneità. Sophie Koch bada anche lei a esprimere anziché a mettere note in vetrina, quantunque siano tutt'altro che brutte; ha lineamenti personali e marcati, il che è meglio d'essere solo carina; sfuma, colora, bada alla parola in ottima sintonia con Kaufmann; in scena, è attrice modernissima. Eccellente Charlotte, in definitiva, soccorsa inoltre da ottimo francese. Ludovic Tézier (che ha cantato anche Werther nella versione Battistini) è l'Albert migliore che si possa oggi ipotizzare. E persino quell'insopportabile caramellaia di Sophie, alla quale ovviamente Jacquot nulla fa per dare un qualche spessore, Anne-Catherine Gillet, petulando al minimo sindacale, riesce a renderla meno scema del solito.

 

 






 
 
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