Nel bicentenario wagneriano, il Metropolitan ha fatto di tutto
per mettere in scena una nuova produzione di Parsifal che
lasciasse un segno profondo, e bisogna dire che l'obiettivo è
stato raggiunto, grazie a un cast ideale e a una regia
essenziale che non distoglie l'ascoltatore dalla centralità del
fatto musicale, restituito con profonda calma interiore dalla
direzione di Daniele Gatti. Non è, questo, un Parsifal per
tutti. Chi cerca brillanti provocazioni registiche, scene
appariscenti, trovate che tentino di addolcire un ascolto che —
nonostante la bellezza — non è propriamente uno zuccherino (si
tratta pur sempre di quattro ore e mezza abbondanti di musica),
dovrà rivolgersi altrove. Siamo lontanissimi dalla produzione,
ad esempio, che Stefan Herheim mise in scena a Salisburgo nel
2011, sempre con Gatti sul podio: quanto quella era creativa e
coloratissima, tanto questa di Girard è sobria, quasi spartana,
atta a stimolare quel raccoglimento interiore senza il quale
Parsifal sarebbe, in effetti, un'opera senza senso. Il set è
costituito da un paesaggio lunare, pressoché post-apocalittico,
nel primo e terzo atto: i fondali crepuscolari, con cieli rossi
o nuvole grigie in lento movimento, suggeriscono l'idea di 00
mondo giunto allo stadio ultimo del suo declino, che verrà
salvato in extremis dalla profonda compassione che muove il
protagonista. Si potrebbe però anche dire che Girard concepisce
una scena che si pone fuori da ogni tempo: più simbolica che
narrativa, più esistenziale e filosofica che psicologica. Il
secondo atto, invece che creare un contrasto attraverso una
rappresentazione lussureggiante del giardino di Klingsor, è
ancora più cupo degli altri, svolgendosi in un abisso sanguinoso
al cui centro si pone un unico letto. Essenziali e volutamente
impersonali sono anche i vestiti: gli uomini in camicia bianca e
pantaloni scuri; le donne, nel secondo atto, in cilicio bianco;
solo Parsifal si distingue per la sua tenuta scura, quasi una
tuta da lavoratore. Girard ha affermato che il suo obiettivo è
stato quello di lasciare che traspaia «ciò che conta »
(sostanzialmente, il messaggio filosofico e la profondità
intrinseca al fatto musicale), senza voltar gettare a tutti i
costi il dramma wagneriano in un nuovo contesto. In questo, la
sua regia è perfettamente in linea con la direzione di Daniele
Gatti, che rifiuta sistematicamente qualsiasi effetto atto a
suscitare stupore, per costruire invece un grande arco fondato
sull'introspezione e sulla graduale conquista di una sorta di
nirvana conclusivo. Il primo atto (di un'ora e cinquantasei
minuti) funge quasi da iniziazione agli altri due: ogni ansia,
ogni eccesso nervoso viene eliminato, per creare quello spazio
interiore che nel finale si traduce in vera e propria ascesi
mistica. Perciò, Girard e Gatti sembrano lesinare fin da subito
gli edonismi —pur allettanti — che abbiamo visto e sentito in
altre produzioni: la loro scelta, incline a un'attitudine
contemplativa e sostanzialmente priva di compromessi, sembra
proprio riallacciarsi all'idea wagneriana (e schopenaueriana)
della conquista del nirvana attraverso la rinuncia. Nulla è di
troppo: lo si sente fin dal Preludio, in cui Gatti — grazie a un
ottimo equilibrio tra abbandono espressivo e controllo della
sonorità — distende il discorso con una solennità semplice ma
partecipe. E un tempo inteso come pura durata, quello di cui
facciamo esperienza in questo Parsifal: allo scorrere narrativo
(che pur non è assente, specie nel secondo atto) si sostituisce
un'esperienza soggettiva del tempo, vissuto oniricamente come
dimensione più circolare che lineare (in questo, effettivamente,
Parsifal sembra evocare procedimenti schubertiani o bruckeriani,
più che beethoveniani). La dilatazione dei tempi (otto minuti in
più rispetto alla versione già molto ampia diretta da James
Levine) è quindi del tutto funzionale non solo a un'immersione
nel Sublime, ma anche a una nuova concezione della temporalità,
che al Sublime è strettamente correlata. Se si cerca l'azione a
tutti i costi, semplicemente non bisognerà rivolgersi a Parsifal
(forse un'eccezione è il secondo atto, in cui avremmo desiderato
qualche momento di maggior veemenza sonora). E così avviene
anche a livello di una regia in cui la semplicità diviene, di
questi tempi, del tutto originale (Parsifal e Kundry non girano
nudi, come si è visto altrove, ed Amfortas non estrae il proprio
fegato per darlo in pasto ai cavalieri!).
La qualità del
cast vocale è molto alta: Jonas Kaufmann è un Parsifal dal
timbro caldo e dal carisma assoluto; nel contempo, dal punto di
vista attoriale, egli riesce perfettamente a incarnare la
freschezza dell'eroe puro, quasi ingenuo (come avviene in molta
letteratura tedesca, fino all'Hans Castorp di Mann e oltre), la
cui assenza di corruzione è condizione indispensabile per
intraprendere un cammino iniziatico alla rovescia, fondato in
questo caso sull'idea di rinuncia piuttosto che su quella di
sete di esistenza. Se Kaufinann è una conferma, ancor più
sorprendenti sono le interpretazioni di Evgeny Nikitin, un
Klingsor superbo, e di Peter Mattei, un Amfortas intenso come
pochi altri. Katarina Dalayman è ottima nel ruolo di Kundry
(anche se forse non ai livelli di Waltraud Meier), il veterano
Ren• Pape è un Gurnemanz pregnante e solidissimo, forse fin
troppo omogeneo nel colore vocale. La qualità della presa Sony è
lievemente inferiore alle aspettative, a causa di un suono un
po' privo di calore nelle basse frequenze. Ci sono però i
sottotitoli in italiano e nel complesso siamo di fronte a uno
dei migliori Parsifal degli ultimi decenni.
|