L'opera, Juli/August 2010
Giancarlo Landini
 
Lohengrin

Niente medioevo, niente cavalieri dalla corazza d'argento, niente navicelle tirate dai cigni. Un tempo alluso dai costumi: quello moderno. Un generico Novecento, nelle fogge dei soldati. Una reminiscenza ottocentesca nel costume di Elsa.

Qualche connotazione razziale in una Ortud che più ariana di così non potrebbe essere, come ad indicare che l'avversione ad Elsa e al mistico cavaliere nasconde desideri di segregazione, ansia di sopraffazione, spirito di casta.

Il palcoscenico del Nationaltheater è sovrastato da una struttura a ponte, alla quale si può accedere dai lati e che permette al Coro di assistere all'azione. Al centro ci sono le fondamenta di una casa che, dopo la liberazione di Elsa, la giovane donna costruisce assieme al suo sposo e con l'aiuto di un gruppo di collaboratori.

Loro, come Lohengrin portano jeans o salopette, una maglietta, le scarpe da tennis. L'estraneità del cavaliere è proprio segnata da questo abbigliamento che lo mette fuori dal mondo del Brabante, dalle divise dei militari, dall'abito borghese dell'Araldo che sta seduto
su di un alto sgabello, come il giudice di una partita di tennis.

Costruire la casa vuoi dire perseguire il giusto progetto, al quale Elsa nella sua ingenuità chiama anche Ortrud, che non si sottrae, sebbene edificare quella magione sia per lei un inganno. Ma la costruzione non può continuare. Elsa non riesce ad accettare il patto e la casa brucia. Il mistico cavaliere deve andarsene, mentre riappare Gottfied, stregato da Ortrud, che assorbe l'attenzione della sorella e permette al regista di farci cogliere una verità del dramma: l'incapacità di Elsa di porsi al livello di Lohengrin, rimanendo confinata nel mondo concreto.

Tutto questo è uno spettacolo semplicemente meraviglioso per l'immediatezza con cui l'allestimento veicola la storia, non avvilendola affatto. Lohengrin è questo, è quello che viene raccontato. Forse potremo lamentare qualche eccesso di simbolismo, oppure l'ingenuità di fare tenere in mano a Lohengrin un cigno impagliato, ma sono piccole cose.

Rimane a latere il problema dell'incapacità di noi moderni di raccontare attraverso il passato e di dovere ricorrere all'attualità, ad un ritorno costante al presente. Ma è un'altra questione, che non attiene ad una recensione. Siamo così di fronte ad uno spettacolo splendido e tradizionale, nella misura in cui il regista non compie strane sovrapposizioni, né violenze, né forzature. Legge quello che c'è scritto nella musica e lo fa venire allo scoperto, Dal mito all'apologo e l'apologo è metafora del contenuto attraverso una serie di correlativi oggettivi, primo fra tutti la casa.

Per questa visione smitizzata, ma non banale, Kent Nagano inventa un Lohengrin asciutto e sincero, che cerca sonorità liriche, ma non estenuate. È un Wagner limpido, lontano da ogni tentazione estetizzante. È un Wagner che, in linea con l'impostazione dei direttori più interessanti dell'ultima generazione, riconduce l'orchestra ad una funzione illustrativa, quasi si trattasse di una colonna sonora. II significato va cercato sul palcoscenico e i leitmotiv diventano altrettanti segnali, di facile lettura, per individuare il percorso.

L'operazione di Nagano trova potente alleato nel protagonista. Jonas Kaufmann presta a Lohengrin la bella voce di un Heldentenor di moderno sentire. È robusta nel canto, senza enfasi declamatoria. Sfrutta il retrogusto baritonaleggiante, scuro, a tratti anche gutturale del suo singolarissimo timbro, che però non nega la tenorilità del registro acuto sempre timbrato con uno spolvero brillante. A questo si aggiunge l'arte della mezzavoce che gli permette di siglare un commovente saluto al «cigno gentil», come dicevano i tenori italiani, senza però deragliare dallo stile di Wagner per prestargli inopinatamente degli zuccheri filati dolcissimi, più consoni all'opéra-lyrique. È una mezzavoce suggestiva che ritroviamo nel Duetto della camera nuziale. Essa si sposa al declamato virile, ma giustamente lontano da ogni machismo declamatorio. Conferisce forza e determi-nazione al grande racconto che chiude l'opera, «In fernen Land», ma prima ancora all'appassionata arringa del cavaliere nel I atto. Una recensione non è luogo di confronti. Ma è certo che Kaufmann non è solo un bel Lohengrin, ma un Lohengrin che può entrare di diritto nella galleria dei migliori, realizzando una sorta di congiunzione tra le letture di taluni interpreti tedeschi e quella di Sandor Konya.

Anja Harteros non lo eguaglia. La voce dai tratti aciduli le consente un canto meno risolto, meno autorevole e meno convincente. L'interprete supera la cantante per intensità e partecipazione, ma le manca l'ispirazione. Non approda ad un ritratto altrettanto coinvolgente. Lo scarto, almeno per noi, non è tale da costituire un pregiudizio e da non permettere di formare una coppia che, non a caso, trova nel Duetto della camera nuziale uno dei momenti più riusciti. C'è poi da dire che l'uno e l'altra, separatamente ed assieme, sono assolutamente credibili e rispondenti al ruolo che la regia chiede loro di giocare.

Gli altri sono tutti funzionali ed efficaci. Non mi sentirei però di trovare in alcuno di loro una particolare eccellenza. Varrà piuttosto osservare che la coppia cattiva trae credibilità dall'ottimo inserimento nello spettacolo, dal convincente rapporto artistico che li lega, con una particolare preferenza per la Schuster, che crea una singolareOrtrud, gelida e cattiva e compensa con la recitazione quello che la voce non riesce e forse non può dire.

Registrazione e ripresa di alto livello, con valida definizione dei piani sonori, mentre la telecamera sa passare con fe-licità dall'insieme ai personaggi, dalla loro interazione, ai volti e agli sguardi.
 






 
 
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