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L'ape musicale, 15 Maggio 2016 |
di Andrea R. G. Pedrotti |
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All'ombra dei Calatrava
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La
forza del destino non è un’opera dalla drammaturgia debole o caratterizzata
da uno sviluppo delle vicende poco articolato e slegato fra le varie parti.
È semplicemente un melodramma completamente privo di un’autentica trama,
poiché non accade, di fatto, nulla di pratico, a eccezione di un omicidio
colposo nel primo atto, che condurrà al fiume di sangue del finale. Un fiume
di sangue che non scorre per motivi d’onore in senso stretto o, dinastici, o
di accese rivalità. Il plasma che inonda il termine di La forza del destino
non è altro che il frutto di un errore umano (giustificabile, vista la
situazione contingente in cui accade), che scatena una sete di vendetta
inestinguibile nel cuore dell’antagonista, Don Carlo di Vargas.
Il
tutto si regge su un delicato intreccio psicologico (e di psicologie
differenti), che conducono al finale che conosciamo. Tutto ciò che accade
attorno non influenza e non è minimamente influenzato dai rapporti
conflittuali fra la famiglia dei Calatrava e Don Alvaro.
Era molto
difficile mettere in scena un soggetto del genere, mantenendo viva
l’attenzione dello spettatore, teatrale, o, nel nostro caso, televisivo, che
decida di cimentarsi nell’ascolto di un’opera il cui unico punto di forza è
la musica di Giuseppe Verdi.
L’intreccio di personalità e rapporti è
perfettamente gestito dall’ottimo regista Martin Kušej, grazie a una
precisa, quanto originale, analisi caratteriale del carattere di ognuno, sia
nella propria singolarità, sia nel contesto, conferendo alle vicende un
senso compiuto e coinvolgente.
Tutto ruota intorno a una tavola, alla
quale stanno assisi i Calatrava, all’ombra del marchese. Proprio
l’oppressiva egida del padre sarà causa delle tragedie umane che ciascuno
vivrà, primo fra tutti Don Alvaro, raccontato dal regista in chiave
completamente differente rispetto al consueto, poiché egli non viene pensato
come un impulsivo "sangue di mulatto", bensì come l’unico personaggio
assennato fra i protagonisti.
Tutti stanno seduti assieme: il
marchese a capotavola, alla sua sinistra il figlioletto Carlo, poi Leonora,
Curra e, di fronte a lui Fra’ Melitone, curato e forse ajo di famiglia. Il
loro desinare avviene sulle note della celeberrima Ouverture: tutti sono
seri e compiti, financo timorosi del padre che li osserva minaccioso. Il
piccolo Carlo è quasi alienato, sembra un ragazzino dissociato, abbigliato
da ligio studente (in effetti nel secondo atto si presenterà, sotto falso
nome, raccontando il suo percorso di studi, prima della narrazione del
delitto), Curra potrebbe essere una governante, come una matrigna, poco
interessata alle faccende del marchese. L’indifferenza fra i due potrebbe,
in effetti, far pensare a una di quelle coppie della nuova borghesia, con
marito e moglie saliti all’altare per interesse, ma –magari- con rispettivi
amanti per soddisfare le proprie voglie. Leonora indossa un bell’abito nero,
che l’accompagnerà nel corso di tutta l’opera, intenta nello spezzare un
mesto pezzo di pane, mentre Fra’ Melitone si perde in goffe gozzoviglie fra
vino e pietanze varie, severamente redarguito dagli sguardi di Calatrava.
Pare quasi una novella ultima cena.
Il teso, quasi nevrotico,
equilibrio conformista dell’oppressione viene, tuttavia spezzato da Don
Alvaro: un giovanotto, poco incline al cerimoniale e che degli Inca da cui
discende conserva una folta chioma, a sottolineare il suo essere un
personaggio avulso dagli schemi nobiliari prima e borghesi poi.
Difficilmente una persona è attratta dall’abitudine, o dalla routine, ma –
quasi tutti – viviamo una sorta di strana attrazione per ciò che ci appare
differente da noi, che non ci riflette. Una sorta di strana calamita verso
una forma di potere, la cui libertà è rappresentata esclusivamente dal non
dover più vivere nel rigore che le era stato imposto dalla nascita. È un
rigore di prepotenze intrafamiliari, che rendono Leonora titubante,
lasciando tempo all’incedere del padre e dei suoi sicari (perfettamente
rispettato il libretto anche qui), che vogliono farsi giustizia
dell’affronto. Alvaro sembra voler portare la calma, getta a terra la
pistola carica, parte il colpo e uccide il marchese, dalle cui labbra
scaturisce la prima maledizione. Il padre a terra esanime e la celere
immagine di una serie di comparse a figurare le fasi della crescita del
piccolo Don Carlo, ormai totalmente alienato, a stringere il cadavere di
colui che lo generò. Il cadavere sarà sempre presente, così come la tavola,
presente a terra durante il secondo atto e perenne ombra inquisitoria nel
corso di tutta l’opera. Infatti un’altra geniale idea registica è quella di
far interpretare il marchese e il padre guardiano dallo stesso basso, con un
abbigliamento quasi identico, poiché deve esser sempre l’ombra funesta del
padre a evocare la maledizione, nel primo, nel come nel terzo atto.
La tavola fungerà anche da barella per il primo duetto del terzo atto.
Utilissimo drammaturgicamente è anche mantenere la versione integrale con
l’esecuzione del duetto conclusivo dello stesso atto “Né gustare m’è dato
un’ora di quiete”, perfetta figurazione dell’animo di un Don Carlo
totalmente devastato nella psiche dall’oppressione del padre\marchese.
Nell’ultimo atto “le minacce, i fieri accenti” vengono pronunziate
presso l’onnipresente tavola, presente anche innanzi all’eremo in cui s’era
reclusa Leonora e attorno alla medesima tavola s’erano riuniti i frati e il
padre guardiano (figurativamente il marchese), a pronunziare la solenne
promessa di maledizione su chi avesse turbato le meditazioni di quel luogo.
Leonora, ormai, vive schiacciata da una moltitudine di bianche croci
latine e, dopo esser stata riconosciuta dal fratello, ferito a morte da
Alvaro, subirà il fendente che le sarà fatale dal suo congiunto esanime.
Le due maledizioni (quella del marchese del primo atto e quella dei
frati del secondo) hanno compimento: i protagonisti si ritrovano assisi
nelle medesime posizioni del loro passato, il padre guardiano a capotavola
(oramai pienamente nelle vesti del marchese) e i cadaveri dei due fratelli
sono nei pressi dei medesimi scranni della loro infanzia.
Qui notiamo
la parte più drammatica dell’opera, ossia il conformismo pseudoreligioso che
vede la salvezza in un presunto sacrificio, che altro non è che un omicidio
perpetrato dalla scellerato controllo distruttivo del padre\marchese nei
confronti dei due figli, senza che da lui provenga alcuna stilla di
pentimento. Impressionante sentir cantare da quello che è realmente un
“padre guardiano”, ma del male (il marchese di Calatrava), la compiaciuta
frase “salita a Dio”. È logico, una regia tradizionale avrebbe previsto la
benedizione di un prelato, con tanto di incenso e olio santo, ma questa
interpretazione è ben più reale e cruda, come cruda è la realtà.
Se
splendida è stata la regia, non da meno poteva essere il cast. Vitalij
Kowalijow è perfetto nel doppio ruolo del Marchese di Calatrava e del Padre
Guardiano: imperioso e autoritario come si dovrebbe.
Eccezionale la
Leonora di Anja Harteros, stupefacente per qualità vocali, tecnica,
eleganza, precisione e imperfettibile dizione. Ottimi anche
l’interpretazione e l’encomiabile fraseggio.
Se è ottima Leonora, il
Don Carlo di Vargas di Ludovic Tézier è insuperabile. Il baritono francese
si dimostra attore meraviglioso e probabilmente sarebbe escluso dai provini
delle maggiori case cinematografiche mondiali per manifesta superiorità.
Tanto meglio, lo teniamo volentieri nei teatri d’opera, anche perché se la
prova scenica è superba (anche nella mimica facciale più minuta), quella
vocale è persino superiore. Tézier, con questa superlativa interpretazione,
s’è prefisso di turbare i nostri sogni per molti anni a venire, come di
deliziare le nostre orecchie a ogni ascolto. Non si poteva interpretare
meglio l’idea registica di Martin Kušej, se non attraverso una tale
manifestazione dello squilibrio omicida e senz’anima. Un’anima strappata
dalla crudeltà del Marchese.
Sugli stessi livelli del collega un
grandissimo Jonas Kaufmann, tenore fra i pochi a saper interpretare con
fraseggio appassionato, ottima resa scenica e invidiabile freschezza
l’impervio ruolo di Don Alvaro. Il tenore tedesco, con questa prova si
conferma, ancora una volta, ai massimi livelli mondiali. Non era facile
calarsi nei panni di un personaggio pensato per la prima volta come l’unico
protagonista equilibrato dell’opera, impegnato a controllarsi e a chetare la
follia di chi lo circondava. Tutto questo è ben visibile nel duetto “Invano,
Alvaro”, quando egli tenta ogni mezzo pur di non cedere alle provocazioni
sconnessamente decise di Carlo di Vargas.
L’unica interprete che ci
convince poco è la Preziosilla di Nadia Krasteva, non troppo a suo agio
nelle agilità del ruolo e in costante difficoltà nella gestione del legato.
Anche i suoi interventi sono perfettamente in linea con il libretto: infatti
è difficoltoso immaginare una zingarella nel mezzo d’una soldataglia, come
un’educanda, mentre il “Rataplan” del terzo atto è scenicamente perfetto,
poiché di orgia si parla chiaramente nel libretto, più precisamente nelle
frasi di Melitone: “qui si tresca con Venere, con Bacco”, “calpestate,
rubate, bestemmiate...” e “Tutti, tutti cloaca di peccati”.
Ottimo il
Fra’ Melitone di Renato Girolami, bravo vocalmente e abile a mettere in
risalto la meschinità di un personaggio che ha ben poco di positivo.
Parassita nell’abitazione dei Calatrava, severo censore dei costumi
pubblicamente, per poi rubare i pasti dalla mensa dei poveri nell’ultimo
atto.
Completavano il cast Heike Grötzinger (Curra), Christian Rieger
(Un Alcade), Francesco Petrozzi (Mastro Trabucco) e Rafal Pawnuk (Un
chirurgo e Un Sergente Spagnolo).
Bellissime le scene di Martin
Zehetengruber, le meravigliose luci di Reinhard Traub e i costumi di
ambientazione contemporanea (corretto, perché si tratta di una vicenda senza
tempo e priva di riferimenti storici ineludibili) di Heidi Hackl.
Perfettamente coerente il lavoro dei due drammaturghi Olaf A. Schmitt e
Benedikt Stampfli.
La concertazione di Asher Fisch è precisa e del
tutto conforme, per quanto riguarda la linea musicale, alle idee dell’intera
produzione, formando un bel connubio fra buca e palcoscenico. All’interno
del golfo mistico ritroviamo la meravigliosa Bayerisches Staatsorchester,
che si esibisce sugli stessi livelli del coro della Bayerische Staatsoper
diretto da Sören Eckhoff.
Come giusto che sia una delle migliori e
più importanti realtà del panorama lirico mondiale, ossia la Bayerische
Staatsoper, ha deciso di eternare uno dei suoi migliori spettacoli. La forza
del destino andata in scena nella stagioe 2013/14 nella cornice del massimo
teatro bavarese, è solamente una fra tanti riusciti capolavori teatrali ivi
rappresentati. Anche il DVD (edito dalla Sony) è impeccabile: l’opera è
divisa in due dischi, i sottotitoli sono discreti, è indicata con perizia
l’edizione (Milano, 1869) e la data di registrazione (22 dicembre 2013). Una
bella idea della regia della ripresa video è quella di intervallare ogni
atto con un intenso primo piano di Leonora (Anja Harteros), con gli occhi
serrati, che si dischiuderanno solo con l’ultima inquadratura simile alle
precedenti, al termine dell’opera. |
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