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Classic Voice, Maggio 2014 |
Elvio Giudici |
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Gounod - Faust
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I
Metropolitan della gestione Gelb è impegnato in una difficile
rimodulazione della propria fisionomia "tradizionalmente tradizionale",
com'è stata definita: resasi necessaria sia dalla naturale evoluzione
del gusto teatrale, sia dalla cospicua novità rappresentata dalla
diffusione in diretta nei cinema di tutto il mondo (in Hd e suono
spettacolare) di ben dodici produzioni all'anno. Novità tradotta in una
cornucopia di registrazioni d'altissima qualità che finiscono nel già
vasto archivio video del Met cui - con l'aggiunta dell'invece vastissimo
reparto audio - dà accesso illimitato un abbonamento annuo tutt'altro
che proibitivo e che pertanto costituisce per il teatro un non
disprezzabile e soprattutto continuativo supporto economico. Due
necessità parallele che in comune hanno l'assoluta necessità di
configurare spettacoli in grado d'essere accolti da pubblici anche molto
diversi tra loro quanto ad abitudine e tradizione teatrale. Novità,
quindi, che tenga conto dell'ormai acquisita assuefazione a un racconto
per immagini rapido, essenziale, immediatamente recepibile e dunque
senza eccessive esigenze contenutistiche: in più, trattandosi d'un
pubblico in prima istanza americano, quel gusto per lo spettacolo
"bello" e movimentato che spontaneamente si aspetta chi ha consuetudine
ormai secolare col musical.
Non facile. E difatti, non tutti i
recenti nuovi allestimenti del Met, pur tenendo conto di tali
"obblighi", possono dirsi riusciti. Questo, poi, meno di tanti altri.
Faust come una sorta di Dr Oppenheimer che ha completato la bomba ed
è assalito dai sensi di colpa; vorrebbe suicidarsi e beve un intruglio
che però non lo uccide ma lo fa piombare in un incubo, nel quale rivive
le esperienze giovanili del primo dopoguerra. E siccome diverrà una
sorta di essere infernale per via della bomba, adesso lo vediamo come
"doppio" di Mefistofele (vestiti uguali, lui ha un fiore bianco
all'occhiello e l'altro uno rosso): entrambi, tuttavia, con poco o
niente da fare e impegnati per lo più a passeggiare per dar aria al
fiorellino. Molto strano, per un regista che ha diretto uno dei musical
più celebrati degli ultimi tempi (il suo Jersey Boys è in scena da dieci
anni, e tuttora fa il sold out), mostrare simile impaccio nel gestire
non solo la gestualità ma lo spazio, perdendosi dietro una serie di
trovatine che lasciano il tempo che trovano.
Alla fine del
terz'atto, il gigantesco Diavolaccio che compare sul fondo. Marguerite
che cuce sulla Singer. Walpurgis risolta col coro tutto fermo che munito
d'occhiali neri assiste a un'esplosione nucleare proiettata sul fondo e
conclusa con svolazzi di diavoletti. I reduci bloccati in posa per il
fotografo, identici a quelli di Lavelli quarant'anni fa. Marguerite
ascende al cielo salendo su una delle due scale metalliche che sono
restate fisse per tutta la sera, mentre Faust si sveglia tornato vecchio
e muore, presumibilmente nient'affatto redento. La vicenda si riesce
insomma a seguirla, ma niente di più. Pessima cosa, perché si ha più
tempo per badare a canto e direzione.
Nézet-Seguin gonfia e
tonitrueggia, con scialo d'ottoni e non solo nella Marcia, gonfiando
ogni apertura melodica e producendosi qua e là in eterei vaneggiamenti
di dubbissimo gusto. La Poplavskaya è la calamità che sempre suole
essere. Non è solo inadatta a Marguerite per via d'un registro acuto
stridulo e vetroso (Gesù, il terzetto!), d'un centro vuoto e in generale
d'una linea tutta scalini e spigoli aguzzi, da cui niente colori e un
gioco dinamico che ad ogni cambio di marcia "gratta" fastidiosamente:
più semplicemente, è inadatta a stare su di un palcoscenico.
Pape
vuole fare il Gran Basso d'antan (quello che Méphistophélès lo ha
assimilato al pupazzone boitiano, livellandone quel gioco d'accenti
chiaroscuri e inflessioni che, in origine, avrebbe quel personaggio
d'eloquio ironicamente salottiero immaginato da Gounod; ma
un'assimilazione che ha prodotto bellurie sonore che, quantunque
incongrue, erano un gran bel sentire): ma non ne ha i mezzi e quindi
gonfia e nasaleggia a tutto spiano - cos'è l'invocazione alla notte! -
in una desolante povertà di fraseggio. Russell Braun non cava granché da
Valentin, Michele Losier è un Siebel anemico, e così resta solo
Kaufmann. Che è bravo ma non bravissimo, recita bene ma non benissimo, e
soprattutto non dice nulla di nuovo in termini di fraseggio: con Faust,
insomma, il miracolo del suo Werther non s'è ripetuto. |
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