Già
l’idea di Johann Wolfang Von Goethe nacque da una leggenda popolare, ove
il sapiente Faust Bojan decide di invocare il diavolo, al fine di
ottenere, a prezzo della propria anima, la sapienza assoluta per
ventiquattro anni. L’antico racconto tedesco ebbe genesi dall’affermarsi
nella società di quella moltitudine di personaggi – resi inquietanti
dalla vulgata popolare – vissuti nel Rinascimento, quando la scienza
cominciava a formarsi, scontrandosi e fondendosi con la teologia. In
realtà, quindi, le vicende del Dottor Faust nascono dall’immaginario
collettivo. L’edizione prodotta, nel 2011, dalla Metropolitan Opera
House, principia e ha la sua conclusione proprio nel delirante sogno di
Faust, il quale, afflitto dalla vecchiaia e privo dei piaceri materiali,
si aggira in una sorta di grande laboratorio (che poi sarà cornice
dell’intera messa in scena, con tanto di camici bianchi quasi
perennemente presenti), apparentemente dismesso, indeciso se porre o
meno fine ai propri giorni.
Nella perizia cui la regia di Des
McAnuff segue pedissequamente ogni indicazione del testo di Jules
Barbier e Michel Carré è sempre presente il senso dell’irrealtà; il
fondo della scena è perennemente animato da proiezioni con il chiaro
scopo di calare chi assista all’opera nei tormenti e nei sentimenti,
vissuti dall’anima dell’anziano studioso: intensi sguardi a tinte
sfumate, nei momenti di riflessione, fasci di rose in quelli d’amore,
fino all’intenso viso di Marguerite, che, ormai folle, grazie alla sua
sensibilità, unica riesce a riconoscere la vera natura demoniaca di
Méphistophélès.
L’intero apparato scenico è molto semplice e i
quadri si susseguono con pochi elementi, facilmente sostituibili e
aiutati dallo straordinario progetto luci di Peter Mumford, funzionale e
indispensabile per la felice riuscita della produzione quanto la parte
musicale.
Per far sì che l’alchimia dello spettacolo compisse
appieno il suo effetto si è deciso di affidare la partitura a una
compagnia d’altissimo livello. Jonas Kaufmann interpreta il ruolo di
Faust alla perfezione: sin dal suo apparire da prova delle sue grandi
qualità d’attore, attraverso i più piccoli gesti (come asciugarsi la
fronte con un fazzoletto che sarà prima nella mani di Méphistophélès,
poi sudario di Valentin e, infine, rappresenterà simbolicamente il
defunto figlio di Marguerite) è in grado di rendere tutta l’interiorità
del personaggio, in ogni sfaccettatura. Inizialmente vecchio e stanco,
quasi irriconoscibile, poi, attraverso un veloce cambio d’abito, tutta
la linfa giovanile pare cominciare a scorrere nelle sue vene, prima
sprezzante e alla perenne ricerca della perversione, poi sinceramente
innamorato e, da ultimo, vittima degli eventi di cui egli stesso sarebbe
stato causa, stringendo il demoniaco patto. Al termine dell’opera tutto
si svela, la scena torna quella iniziale e Faust si accascia al suolo,
stringendo ancora fra le mani il bicchiere contenente il farmaco
mortale, causa e termine del suo delirio. Particolarmente pregevole
l’impostazione vocale, con un ottimo squillo in acuto e una proprietà di
fraseggio di rara intensità.
Il Méphistophélès di René Pape
inquadra perfettamente il personaggio sotto ogni punto di vista:
assolutamente perfetta la resa scenica, sempre permeato dalla calma
tipica del male, la sua presenza è subdola e elegantissima; appere a
Faust in un impeccabile abito bianco, la penna per la firma del
contratto si materializza fra le sue mani, a seguito d’un suggestivo e
inaspettato fuoco fatuo e ogni minimo gesto nasconde un simbolismo
profondo. Le arie sono eseguite con efficacia coinvolgente e mai
caricaturale: “Le veau d’or” (immagine del tradimento della fede e
dell’abbandono di un popolo alla perdizione, come tramanda la tradizione
ebraica dell’antico testamento) diventa un momento assolutamente
memorabile; Méphistophélès pare aver in pugno tutti i presenti, che
vengono posseduti, in una ritmata epilessia, magistralmente controllata
da una suggestiva gestualità, quasi fosse un perfetto direttore
d’orchestra, perdendo il controllo e crollando, vittima di convulsioni,
soltanto all’apparire della croce. Anche il bastone perennemente stretto
fra le mani, quale segno del comando, ha come impugnatura una piccola
figurazione del sistema tolemaico, a rappresentare la sua egemonia
ultraterrena. A riprova del potere distruttivo del male, la notte di
Valpurgie si manifesta nel culto d’una grande bomba atomica, venerata
dai demoni, ma creata dall’uomo stesso, che come Faust si rivolge al
demonio per i suoi scopi distruttivi nei confronti della sua stessa
specie.
Allo stesso modo la serenata “Vous qui faites l’endormie”
viene eseguita con grandissima classe e nobiltà, scevra da ogni
espressione sguaiata nelle risate, figlia della peggior tradizione.
L’evoluzione del personaggio freddo e viscido giunge a essere vera
eincarnazione del male al termine dell’opera: muta completamente
aspetto, l’espressione è più arcigna, pronto a portare a compimento ciò
che si era prefissato, sino a trascinare all’inferno, assieme a lui,
Faust. Marina Poplavskaja si dimostra anch’essa ottima attrice:
Marguerite, ragazza profondamente fragile, melanconica e sensibile,
piange la morte della sorella e saluta affranta la partenza del fratello
Valentin, alla volta della guerra. L’aria dei gioielli, dove la ragazza
estrae ogni oggetto, seguendo minuziosamente le indicazioni del
libretto, come in ogni più piccolo dettaglio della regia, è interpretata
con grandissima partecipazione e fraseggio curato. Come in Kaufmann
(bellissimo il loro duetto d’amore) tutti gli aspetti psicologici sono
approfonditi in maniera notevole e i sentimenti del personaggio giungono
all’ascoltatore, coinvolgendolo completamente. In una recita interamente
ad alti livelli, il momento più toccante è rappresentato dal suo ultimo
atto, quando abbandonata dall’amato e maledetta dal fratello morente,
impazzisce annegando lo stesso frutto del suo amore maledetto in un
figurativo fonte battesimale (che funge anche da lavabo dello studio di
Faust) d’una cappella satanica – questa prende forma dall’apparire in
proscenio degli scienziati, che, sfruttando le luci e l’effetto
cromatico dei camici, trasformano l’intero studio in una grande chiesa
votata al culto demoniaco -, per poi essere arrestata e rinchiusa in una
cella minuscola dall’aspetto inquietantemente claustrofobico; qui
Marguerite adagia un fazzoletto bianco fra le braccia e inizia a
cullarlo dolcemente, quasi fosse il suo defunto figlio. Unica riconosce
in Méphistophélès la vera natura diabolica e le colpe di Faust,
indicando macchie di sangue non visibili ad altri, se non alla sua anima
ferita; l’aspetto è trascurato, vestita d’un semplice abito di tela, i
capelli rasati, il volto emaciato, lo sguardo profondo, ma spiritato.
Lei sola giunge alla salvezza, ascendendo al cielo, tramite una grande
scala posta sul fondo della scena, in contrasto con la discesa infernale
di Faust e Méphisophélès.
Ben caratterizzati anche il Valentin di
Russell Braun, personaggio chiave dell’intera vicenda e vittima degli
eventi quanto la sorella, il Wagner di Jonathan Beyer, il Siébel della
brava Michèle Losier e, soprattutto, l’ottima Marthe di Wendy White, la
quale, nei suoi atteggiamenti, palesa quale fascino possa celare in sé
il diavolo.
L’insieme dello spettacolo non avrebbe potuto avere
collante e fautore migliore quanto uno straordinario direttore
d’orchestra come Yannick Nézet-Séguin: la sua lettura della scrittura
musicale è assolutamente geniale, le dinamiche sono perfette, tutto
appare più semplice, quasi scontato, anche quando non lo è. Trasporto e
catarsi sono totali fin dal primo accordo e la sua bacchetta pare donare
un potere quasi subliminale alle note di Gounod, rendendo certamente la
sua una delle migliori esecuzioni mai ascoltate. Il rapporto fra buca e
palco è totalmente simbiotico e di grande sostegno per i cantanti. Le
scene sono di Robert Brill e i bellissimi costumi primo novecento sono
affidati a Paul Tazewll. Le curatissime e pertinenti coreografie,
eseguite alla perfezione dal corpo di ballo del Metropolitan, sono di
Kelly Devine. Ottima, sotto ogni punto di vista, la prova del coro,
diretto da Donald Palumbo. Al termine pubblico in piedi, a decretare una
meritatissima ovazione per tutti gli interpreti.
Una grande nota
di merito va data anche alla ripresa video della Decca, curata da Sean
Nieuwenhuis, che ha previsto simpatici interventi di Joyce DiDonato,
come conduttrice e narratrice, prodigandosi in numerose interviste,
realizzate negli intervalli, a riprova di quanto i veri artisti possano
provare stima reciproca. |