Internazionale, 07 Gen 2015
Alberto Notarbartolo
 
Kaufmann, la perfezione dei piccoli gesti
 
È la prima scena del secondo atto del Don Carlo di Verdi, nel chiostro di san Giusto. Il nostro eroe, tenore, si sta arrovellando nella sofferenza dopo che nel primo atto la sua amata promessa sposa Elisabetta di Valois, in una di quelle nozze politiche che andavano tanto di moda tra le case reali del cinquecento, è stata invece data in moglie a Filippo II di Spagna, che è il padre di Carlo.

Arriva don Rodrigo, baritono, uomo probo e grande amico di Carlo, che subito cerca di coinvolgere il tenore nel turbamento per la sorte del popolo delle Fiandre, vittima della spietata repressione di Filippo. Carlo però ha orecchie solo per la memoria del suo amore perduto.

Così Rodrigo, dopo un pochino, si accorge che Carlo non se lo sta filando troppo e gli si rivolge gentile ma un po’ scocciato: “Muto sei tu. Sospiri”. E Carlo, che gli sta dando le spalle, si volta buttando gli occhi al cielo, con il tipo di gesto che fa un adolescente quando sua madre gli chiede per l’ennesima volta se ha fatto i compiti. È un attimo, e per me è stata una folgorazione.

Il tenore in questione è Jonas Kaufmann, che nella scorsa stagione è stato un ottimo
Lohengrin alla Scala, a febbraio passerà da Roma per l’Aida a Santa Cecilia e intanto spunta un po’ dappertutto.

La parte di don Carlo è ingrata: l’infante di Spagna è un giovane immaturo e nevrotico, che quando suo padre gli frega la fidanzata si contorce su se stesso e sui suoi guai come un diciottenne degli anni ottanta che passa le giornate cantando Heaven knows I’m miserable now anziché andare a ballare e cercarsi una nuova ragazza.

Gli manca una grande aria eroica e per lui è difficile rubare la scena al vero protagonista, Filippo II, potentissimo ma anche lui vittima, nel suo caso di una chiesa cattolica nella quale Tarcisio Bertone sarebbe stato un personaggio credibilissimo.

Ogni tanto però capita un tenore che capisce bene il poco semplice ruolo, ci si cala a fondo e non si preoccupa troppo dei momenti vocalmente più scomodi (forse qualcuno si ricorderà del pasticcetto di Pavarotti alla Scala nel 1992, che distrasse tutti dal fatto che era completamente fuori parte, oltre a non avere più troppa voglia di studiare).

Kaufmann è uno di questi casi rari e felici. Il timbro è più scuro di quello dei don Carli perfetti (penso, mentre scrivo, al giovane Carreras, che mi ascoltai decenne nell’epocale edizione del bicentenario della Scala diretta da Abbado. Cercatevi il bootleg).

Ma è un bel cantante, non ha paura di niente e s’immerge nel ruolo da vero, grande attore. Il primo atto gli serve a gettare le basi, e poi la scena del chiostro di san Giusto gli alza la palla per la schiacciata del grande personaggio. Arriva don Rodrigo e lui lo accoglie come dicevo. Bang! Da questo momento l’attore s’impone su tutto. I gesti del suo dialogo con Rodrigo sono misuratissimi – una rapida scrollata di capo, la mano che prima di parlare si sfrega il naso – quanto efficaci. Se non ci fosse una splendida voce di tenore, avremmo comunque un personaggio tutto intero nel suo impatto drammatico.

Tutto questo l’ho appena visto nel dvd di un Don Carlo diretto da Antonio Pappano con la regia di Peter Stein, registrato a Salisburgo nel 2013. E già dopo un atto e un pezzettino mi sento di dire che è un esempio perfetto di cosa significa fare del gran teatro con l’opera. Se la vostra idea della lirica è quella di un gruppo di ciccioni che cantano a squarciagola, procuratevi questo album. Ha i suoi difetti – mettere insieme un cast perfetto per il Don Carlo è un lavoraccio – ma vi garantisce entertainment di un livello davvero insolitamente alto.

E come se non bastasse c’è un’opera di bellezza impressionante.

Kaufmann sarà stato contento di lavorare in una messa in scena della versione in cinque atti anziché in quella in quattro, ancora oggi eseguita spesso, che non gli piace (e neanche a me). In una vecchia intervista alla New York Review of Books spiegava perché tra le due non c’è partita, e lo faceva con un’acume e un senso dell’umorismo che ce lo rendevano simpatico prima ancora di averlo ascoltato.

Dopodiché, volete un Don Carlo per sentirvelo bene a casa e che abbia un pedigree migliore di quello di Pappano (per esempio un Filippo II che funzioni davvero)? Ce n’è molti. Io scelgo sempre su tutti l’edizione Decca diretta da Georg Solti nel 1965, dove il protagonista è il tenore verdiano perfetto Carlo Bergonzi, che ci ha lasciato l’estate scorsa, e suo padre è Nicolai Ghiaurov. Se volete un’Elisabetta più centrata di Renata Tebaldi, quella di Solti, che sembra un po’ la madre di Don Carlo più che la sua fidanzata, c’è l’edizione Emi diretta da Carlo Maria Giulini nel 1970 con il giovane Plácido Domingo e l’imbattibile Montserrat Caballé.

Ma ce ne sono molte altre. Fate come me: fate una pernacchia a Spotify e pian pianino compratevele tutte. Io sono a quota 18.





 






 
 
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