L'opera, 7/8 2012
di Giancarlo Landini
 
Adriana Lecouvreur
In un memorabile saggio sul capolavoro di Cilea, Gianandrea Gavazzeni dimostrò con molta finezza che Adriana Lecouvreur fa parte di quel genere di opere che, non appartenendo al novero dei capolavori assoluti, hanno bisogno di essere aiutate non tanto da un'esecuzione eccellente, ma dalla presenza di una primadonna che la prenda per mano. L'altro ieri la Pandolfini, ieri la Olivero e la Kabaivanska. Oggi la Gheorghiu. Bisogna riconoscere che l'abbraccio è stato fecondo. Ma, più in generale è stato fecondo l'incontro tra Adriana Lecouvreur e questo meraviglioso allestimento del Covent Garden.

McVicar pensa uno spettacolo ambientato all'epoca dell'azione. Chiede allo scenografo di realizzare un Settecento veritiero e sontuoso, ma si guarda bene dall'imporgli una calligrafica realizzazione di quanto descrivono le didascalie. La scena è dominata da un teatro che occupa tutta la parte posteriore del palcoscenico. Un gioco di scale raccorda questo piano rialzato con la parte anteriore del palcoscenico stesso.

Nel I Atto la struttura è il retro del palco della Comédie-Francaise nei cui anfratti si tessono trame amorose e politiche. Nel II Atto la struttura è adeguatamente trasformata in una sorta di piccolo teatrino che chiude e adorna la sala di una villa suburbana, dove avviene l'incontro fatale tra le due dame e dove Maurizio gioca una partita non bella della sua esistenza, Nel III è un gran salone con teatro nel palazzo del Principe di Bouillon, dove va in scena il giudizio di Paride, per poi lasciare il posto ad Adriana che recita il Monologo di Fedra con gli obiettivi che sappiamo. Nel IV la casa di Adriana è il proscenio, come se abitasse nel retro della Comédie, in quello spazio che abbiamo visto nel I Atto. Dietro rimane la struttura, nera e vuota. Essa si anima solo nel momento in cui l'orchestra fa vibrare le ultime battute. Allora dal fondo avanzano in costume gli attori della Comédie che, arrivati al bordo del palco su cui stanno, si levano il cappello e fanno un inchino, rendendo muto omaggio...a cosa? All'ultima recita di Adriana. Ma così facendo, McVicar con gioco raffinatissimo ha fatto scorrere in tutta l'opera quella che è la sua interpretazione: Adriana ovvero dell'illusione della vita e della realtà del teatro che è più vero del vero; Adriana ovvero l'illusione della realtà e la necessità di recitare per sottrarsi all'indeterminatezza del vivere. È nell'area semantica del teatro e dell'illusione, pur senza spingere il pedale fino a una lettura pirandelliana, che si annida la genialità di McVicar, tanto più evidente, perché il dramma non è tradito, ma non è neppure ridotta a «mise en scene». Proprio per questo, prima di entrare nel dettaglio, gioverà fare una riflessione di carattere generale, suggerita proprio da questo allestimento. Mi chiedo se non sia questa la strada giusta per riconciliare opera e regia, senza cercare un divorzio causato dalle letture strane che stanno tra la seduta psicanalitica e il delirio. Qui sono salvi il dramma, la sua credibilità. La strada è quella della grande tradizione shakespeariana inglese e non quella del décor, pur sublime, di certi registi italiani. È qualcosa di molto diverso dal mondo di Zeffirelli e di Pizzi, ma anche da quello di De Ana, perché l'ossessione del dettaglio e la recitazione curata in ogni particolare, vanno oltre l'illustrazione. È regia per davvero.

Il Dvd permette di godere di particolari impressionanti. Mi riferisco ai costumi, ma anche al rigore delle suppellettili. Come test consiglio di osservare con attenzione il tavolino del IV Atto, dove Michonnet e Adriana conversano. Consiglio di guardare tutto l'arredo del II Atto, per rimanere stupiti dal lavoro compiuto dallo scenografo.
C'è poi la modellatura dei personaggi che McVicar ha realizzato in virtù dei suoi interpreti. Questo Dvd è la palese dimostrazione del livello di recitazione del moderno teatro lirico, mentre mette in fuga l'obiezione che il supporto visivo non c'entra con l'opera perché farebbe vedere da vicino ugole spalancate e denti al vento. Sono le solite sciocchezze di chi non vede e non sa, come le chiacchiere del bar. Provate ad osservare la mimica di Kaufmann, i suoi ghigni, i suoi melliflui baciamano, complemento fondamentale al disegno di questo ambiguo personaggio che sguscia tra una donna e l'altra e tutte tiene in pugno sulla scorta della ragion di stato. Corbelli può rivaleggiare con Cesco Baseggio e chi abbia qualche dubbio veda tutta la scena che apre il IV Atto. Chi un giorno volesse fare il ritratto di Corbelli, che deve essere considerato il più grande basso-baritono caratterista dei nostri giorni, non dovrà esimersi dal fare vedere questo spezzone, dove, pur non cantando, l'artista è superlativo. Per non par-lare di Angela Gheorghiu diva nella diva, diva nel gesto, nello sguardo, nel modo di porgere le mani, di abbracciare Maurizio, di sentirsi male, di piangere e di morire. Diva davvero, attrice superba di fronte alla quale si infrangono le critiche che sembrano solo sibili di serpi invidiose. Le si addice la parte, le si addice il personaggio, le si addice Adriana. Che ella canta meravigliosamente, con quel suo fraseggio sussiegoso e un po' artefatto che qui sta bene e che da solo rende il fascino di questa donna per la quale la scena è la vita. Non si può tacere la bellezza ella voce e la sicurezza di un canto che conosce l'arte della mezzavoce e dell'aereo pianissimo, per disegnare «l'umile ancella», ma che sa farsi sublime nella morte, dove il famoso soprano regge la situazione e la rende con canto trepido e commosso. Va da sé che la grinta non le manchi e che lo scontro fatale del II Atto la trovi prontissima. L'unico cedimento è nel Monologo di Fedra. Nel declamato la dizione della Gheorghiu non è purissima così come è dubbia la scelta di accentuare il furore della recitazione nell'intento di bypassare la declamazione. In questo punto solo la Olivero e la Kabaivanska vincono la prova, ance se la Gheorghiu riesce a darla di intendere come solo lei sa fare.

Jonas Kaufmann ha l'aspetto, la gestualità, la maschia irruenza che Maurizio deve avere per risultare credibilmente irresistibile. È signore e soldato. La voce è quella sua così particolare per via di una prima ottava scura, ma non baritonale nel senso tradizionale del termine. Brunita, ma non bronzea, a tratti cupa, ma non cavernosa, né roca: è certamente tenorile, per la luce che ha dentro e che si fa via via più forte nella regione centrale e nell'acuto. Non vi è dubbio che Kaufmann conosca l'arte del canto e, pur tenore spinto, ha raggiunto una rara capacità di modulare. In questo il suo Maurizio è erede di quello di Corelli, dal quale però si differenzia per la sobrietà della linea, ripulita dai portamenti. Ha l'arte della mezzavoce, indispensabile per fare Adriana. Ed è arte scaltrita che gli permette di addolcire ad alta quota, con begli effetti nella «Dolcissima effigie», dove, ad essere proprio sfiziosi si potrà notare una certa nasalizzazione del suono. L'osservazione ha lo scopo di aprire un problema annoso e dibattuto. Kaufmann è ingoiato? Sembrebbe di no, a giudicare dalla resa degli acuti, sembrerebbe di sì a giudicare da taluni passi di «L'anima ho stanca». Sembrerebbe di sì quando dall'emissione forte si passa a quella in piano o in pianissimo, dove è netta la sensazione che la ricerca della maschera sposti il suono in avanti rispetto ad oltre note il cui punto di risonanza sembra più indietro, verso la nuca e la gola. Mi sembra però che Kaufmann tragga giovamento da questa tecnica che si è via via perfezionata e che oggi lo fa forse il migliore Maurizio della discografia dell'opera di Cilea; che assolva le esigenze della vocalità nei suoi diversi aspetti; che, come ho modo di osservare per Del Monaco nell'articolo che si pubblica in questo numero, Kaufmann sia un altro bell'esempio di una fisiologia particolare, a cominciare dal timbro, che il tenore modella sulle esigenze della musica e che con personale originalità trasforma in canto. Nella fonazione di Kaufmann c'è qualcosa di poco ortodosso o non ortodosso. Ciò nonostante il meccanismo funziona a dovere. La palma della vittoria gli deriva dal fatto che supera Corelli per il gusto più appropriato, Del Monaco per via di una vocalità più adatta ad essere amoroso, Carreras, Dvorsky e Domingo, Armiliato e Giordani per la tecnica più corretta specie nella manovra della mezzavoce, Bergonzi per la schietta autenticità di una voce di tenore. Forse solo Aragall avrebbe potuto sbarrargli il passo, o Alvarez se avesse scelto di perfezionare il suo strumento piuttosto che usarlo un po' allo sbaraglio, usurandolo in un repertorio non sempre adatto.

Prima di lodare gli altri, tra cui l'efficace Muraro nei panni del Principe, non possiamo ignorare Olga Borodina. Sguardo di ghiaccio: è quello che gela Adriana. Voce di ghiaccio, perfetta nel suono e nel volume, distinta nel fraseggio, imperiosa nel gesto, terribile nello sguardo, tutte caratteristiche tese a dipingere questa donna prepotente, questa Amneris non pentita, determinata fino all'omicidio. Così come il canto del mezzosoprano russo è micidiale e ci vuole tutta l'arte della Gheorghiu per non soccombere.

Corbelli è uno spettacolo di misura e di gusto. Personaggio, ma non macchietta. Pensieroso e senile, ma sempre dignitoso. Nessuna caccola, nessuna concessione. Piacevole. Non buffo. Non può essere buffo un uomo così intelligente e previdente come Michonnet. Il cantante è sempre a suo agio nel realizzare un rapporto aureo tra musica e parole.

Bene gli altri, mentre Mark Elder fa cantare o, meglio, lascia cantare Adriana e i suoi interpreti. Li conduce, sempre con occhio attento al palcoscenico che regola da professionista in grado di stare in una produzione di questo genere.

Adriana non è un capolavoro? Forse. Ma credo che ogni compositore sarebbe fiero di avere scritto un'opera che a più di 100 anni dalla sua composizione offre materia per uno spettacolo di questo genere.

Incisione e ripresa superbe, dove la Decca conferma i motivi che la fanno un marchio glorioso.




 






 
 
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